IL BLOG


IL MOVIMENTO REALE AL FOTOFINISH CON LO STATO DI COSE LATENTE.


giovedì 21 luglio 2011

Toni Negri - "Moltitudine e singolarità nello sviluppo del pensiero politico di Spinoza" (2/3)

Vi sono due modi per la singolarità di essere nella moltitudine. Il primo è il suo esistere in quanto moltitudine. Come abbiamo visto, è il processo che ricompone le singolarità nella moltitudine secondo il principio di utilità (Eth, IV, appendice, capp. 26-27). Di nuovo, è nel rapporto tra singolarità che si stabilisce l’essere moltitudine. È questo il dato della nostra esistenza.
Ma il rapporto tra singolarità e moltitudine si dà, oltre che come tensione esistenziale, per così dire fenomenologica, anche come mutazione. La metamorfosi riguarda la singolarità, in quanto gli uomini non nascono atti e capaci di vita civile. Lo diventano (Eth, V, 39, scolio e TP, V, 2). Questa metamorfosi è costruttiva. Una gran parte del rapporto tra singolarità e moltitudine si gioca su questo spazio. Ma poiché questa moltitudine – data la sua consistenza esistenziale – trova limite, questo limite va superato dal suo interno. Per parlare più chiaramente, il singolo ha paura della solitudine (TP, VI, 1). Lo stato di natura è come aspirato in una situazione di paura e di solitudine.


Ma la paura della solitudine è qualcosa di più della semplice paura. Essa è desiderio di moltitudine, e cioè della sicurezza nella moltitudine e della assolutezza della moltitudine. Ma prima che questo desiderio riesca a esprimersi, le singolarità si trovano in una strana, per certi versi ambigua situazione fenomenologicamente determinata. Potrebbero costruire dentro il comune, eventualmente, una società senza Stato, una società pura, una società nuda. Porsi cioè dentro un rapporto di insicurezza o di conflittualità risolte nel contratto. Sappiamo infatti come nel TTP la soluzione contrattuale sia stata assunta da Spinoza. Essa corrispondeva alla dimensione fenomenologica del costituirsi della singolarità in moltitudine. Essa (la condizione contrattuale) è per così dire omologa a una società senza Stato, poiché essa è ancora sul terreno del semplice essere moltitudine.


Quando dico società senza Stato, evidentemente non alludo a ideali anarchici o a ideali di dissoluzione dello Stato. Parlo del concetto di Stato esattamente come poi verrà fuori in Spinoza, cioè come bene comune, come bene costruito. Essere fuori dallo Stato, essere in una società senza Stato significa esattamente essere in una situazione di animalità, essere in una situazione di automaticità, che nel TTP è appunto descritta.


Si diceva prima, dunque, che ci sono due modi di essere moltitudine.


Il primo è, come si è visto, la sua esistenza. È l’essere un rapporto di singolarità costitutivo della moltitudine, secondo il principio di utilità. Vi sono in questo processo tensioni e mutazioni; la faccia politica di questo essere moltitudine è la dimensione contrattuale, come abbiamo visto. E abbiamo anche voluto identificare questa situazione con un’illusoria società senza Stato, cioè senza la costruzione di un progetto comune di esistenza.


Il secondo modo di essere moltitudine sarà invece caratterizzato dentro la condizione umana, cioè dentro il rapporto tra singolarità e moltitudine, come un processo costitutivo. Il secondo modo di essere moltitudine è fare moltitudine. Si tratta di un processo materiale e collettivo, diretto dalle passioni comuni. La multitudo si presenta qui sempre più come constitutio multitudinis. Non si dà più possibilità di una società senza Stato, di una società animale, di una società automatica, perché la potenza della moltitudine definisce il diritto, quel diritto pubblico che è costume chiamare Stato. Perché lo abbiamo costruito. È qui che nasce la repubblica. Il diritto civile e la repubblica sono la potenza della multitudo. Perché li abbiamo fatti. E allora è qui che il consenso si sostituisce al contratto, e un metodo fondato sul rapporto comune delle singolarità si sostituisce a ogni possibile rapporto tra individualità isolate.


Si badi bene, in questo passaggio dal giusnaturalismo contrattualistico al materialismo etico si risolve anche il rapporto tra singolarità e moltitudine.


C'è simmetria tra l’essere moltitudine e il soggiacere alla dimensione contrattuale, o il fare moltitudine, e quindi costruire la realtà politica. Qui il potere si dà sulla base del fare. Ne viene questa concezione del potere come realtà duale, interrotta: così si rappresenta la repubblica. “Nessuno potrà mai trasferire la sua potenza, e di conseguenza il suo diritto al punto di cessare di essere un uomo; e non vi sarà mai un sovrano che possa esercitare il suo potere come lo vuole” – TTP, XVII. L’apologia della libertà è quindi democratica, fondata sulla tolleranza, ma contemporaneamente sulla realizzazione della libertà. Non si tratta qui semplicemente di riferirsi ai diritti naturali, ma di una certa idea del potere, di un potere che può essere solo democratico, che può essere solo un rapporto. Un potere che non può in nessun caso essere univoco.


Con l’eliminazione del contratto sociale, il rapporto tra soggetto e moltitudine diventa quindi centrale nel processo costitutivo dell’Etica e del TP. Il soggetto politico repubblicano è il cittadino moltitudinario, e non ci sarà più distinzione tra soggetto e cittadino. La sovranità e il potere sono ricondotti alla moltitudine, e si arresta laddove si arresta la potenza della multitudo organizzata (TP, III, 9). L’adagio tantum iuris quantum potentiae comincia qui a imporsi come chiave del fare moltitudine.


Forse non abbiamo ancora abbastanza sottolineato quale sia l’intensità ontologica di questo processo costituivo. In effetti essa è assoluta, non dà alternative. Certo, anche la multitudo ha dei vizi: “Quel che noi abbiamo detto della moltitudine farà forse ridere coloro che restringono alla sola plebe i vizi inerenti a tutti i mortali: la folla, si dice, non ha alcun senso della misura, essa è temibile a meno che non la si trattenga con il terrore, essa è servile quando non la si domini e arrogante quando essa domina, essa è estranea a o ogni verità e giudizio etc. Ma la natura è una e comune a tutti: essa è la stessa in tutti noi. Tutti gli uomini diventano arroganti quando esercitino qualche dominio” (TP, VII, 27).


Come si comprende, il discorso di Spinoza è qui particolarmente realistico. I vizi del potere moltitudinario sono d’altronde quelli di ogni potere quando la potenza della moltitudine sia, per qualche ragione, sottratta alla capacità costituente e al controllo costituente continuo. Ma se consideriamo il fare moltitudine come un processo strutturale, in cui le singolarità si stringono in una relazione che ha le caratteristiche dell’eternità e che implica una causalità divina, allora noi potremo limitare questi problemi, perché lo stringersi nella relazione comune è sviluppare singolarità, differenza e resistenza. È cercare l’amore, appunto, è sviluppare il conatus in cupiditas, e oltre.

(continua)

2 commenti:

  1. Sto leggendo il libro, molto interessante

    RispondiElimina
  2. Intendi l'"Anomalia selvaggia"?

    Per il pensiero politico di Spinoza consiglio anche "La libertà necessaria", di Stefano Visentin. Un saggio eccellente.

    RispondiElimina