IL BLOG


IL MOVIMENTO REALE AL FOTOFINISH CON LO STATO DI COSE LATENTE.


martedì 17 novembre 2020

Orgoglioso di essere un negazionista

Il fatto che l’accidentale in quanto tale, separato dalla propria sfera, il fatto che ciò che è legato ad altro ed è reale solo in connessione ad altro ottenga un’esistenza propria e una libertà separata, tutto ciò costituisce l’immane potenza del negativo [...] 

G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito

venerdì 16 ottobre 2020

Humachina per la Giornata dell'alimentazione [appunti dal taccuino EXPO 2015 ]


Il cibo, cotto o crudo che sia, è in ogni caso “mondo lavorato”, incorpora cioè lavoro umano, è il prodotto di attività integrate, di complesse mediazioni sociali. 

Nella vetrina EXPO, ogni riferimento alla base concreta e materiale della lavorazione sottesa alla preparazione degli alimenti è amputata in partenza. I piatti, i cibi, le portate sono presentate come realtà scisse e a sé stanti. Non cose, ma oggetti. Merci feticizzate.

Catturati nella fantasmagoria, si assiste addirittura a un duplice grado di astrazione, giacché il cibo non solo è separato dalla sua lavorazione concreta, dai rapporti sociali implicati, ma è presentato – sarebbe meglio dire messo in scena – in una forma essa stessa definitivamente disincarnata. 

Non è cibo mangiabile, è il suo spettacolo, la sua ultima illustrazione. In particolare modo, la sua immagine digitalizzata (es. il padiglione giapponese).

L’operazione di falsificazione spettacolare del mondo in EXPO prevede che la rappresentazione del cibo debba manifestarsi nella sua forma più pura e illusoria, ipnotica. Il cibo si vede e basta. Non si consuma. 

Le zone di ristoro sono collocate nel punto cieco del palcoscenico, sottratte allo sbrilluccichio dei padiglioni. Per acquistare e mangiare un panino scadente occorre defilarsi nelle aree periferiche, dove pure stanno i cessi.

La consumazione implica la masticazione, la digestione e la deiezione, tutte pratiche che rimandano a una materialità concreta che il dogma dello spettacolo deve occultare ed esorcizzare.

Il cibo a EXPO si smaterializza, si spiritualizza, diventa sovrasensibile, misteriosamente sociale, autonomo e indipendente, un feticcio danzante davanti ai visitatori dei padiglioni, passivi spettatori inebetiti dall’evento.

Le immagini fluttuano in rutilanti animazioni digitali su grandi schermi, come accade presso lo stand sudcoreano.


martedì 6 ottobre 2020

Per un'arte davvero totalitaria



Solo Humachina è vero Totalitarismo.


1-Humachina esprime una concezione totale della storia poiché – avendone afferrato il concetto puro – ha sterminato definitivamente il Tempo.

2-Humachina è trascendenza assoluta che non può dunque essere smentita da alcun dato empirico.

3-Humachina, dai dieci punti assiomatici costitutivi del proprio Manifesto , deduce necessariamente da sé l’intero Mondo.

Affermiamo dunque, senza tema di smentita, che
fascismo, nazismo e stalinismo non furono abbastanza totalitari per farsi vera avanguardia.

Al palo di valori già stabiliti e derivati, le loro utopie realizzate non furono che mera oggettivazione di una debole e rachitica volontà di potenza, esattamente come deboli, malati e patetici furono Benito Mussolini, Adolf Hitler, Iosif Vissarionovič Džugašvili.

Ma voi masse, ancora oggi travagliate da virus, da crisi, dalla cattiva qualità dei tempi, in angosciosa attesa di una nuova aurora, non dovete disperare.

Confidate in Humachina, perché Humachina difenderà sempre i forti dai deboli.

martedì 29 settembre 2020

Humachina per la Giornata mondiale della salute cardiaca [29 settembre]


Max Pechstein per Humachina

Humachina è l’integralismo delle passioni che esautora il principio di prestazione. 

[punto nove del Manifesto humachinista]

lunedì 21 settembre 2020

sabato 1 agosto 2020

Vade retro


Ci guida nel buio del passato l'eco del colpo di pistola di Majakovskij.

Lì qualcosa  si è interrotto, e lì noi torniamo - armati di senso del 
καιρός -
per riagganciare di due secoli le vertebre, 
per ribellarci alla restaurata tirannia delle cose, 
per portare a temperatura di fusione miliardi di monadi colleriche,
per mettere di nuovo il mondo contro il tempo, 
per spalancare ancora una volta la porta alla trascendenza.

La strapperemo a Dio per consegnarla all'uomo. 

Noi vogliamo il più vasto. 



martedì 14 luglio 2020

Uniamci or tutti! - X annuale di Humachina



Amici e Nemici, Estimatori e Detrattori,

Le contraddizioni sono ovunque, ma – come ogni anno – Humachina vi invita alla sintesi e alla riconciliazione con l’universale e superiore vita dello Spirito.

Sgombrato il campo da ogni motivo di parzialità, perseguiamo dunque concordi quell’eternità che tutti riconduce alla medesima fede e all’ardente proponimento.

In occasione del X annuale di Humachina,
si rinnova dunque l'invito

allo sviluppo collettivo del post Osservatorio permanente- Zeitgeist – l’equivalente della biografia di Dio in compendio – con integrazione dei vostri nuovi commenti-contributo [e rispettivi link ai vostri siti, blog, pagine FB etc. ].

Inserite i vostri commenti-contributo al presente post, questi saranno poi progressivamente integrati nel documento Osservatorio permanente

Il modello da seguire è tratto da T. W. Adorno (suo il celebre "Dalla fionda alla megabomba").

Alcuni esempi:

Dall’accumulazione originaria alla dissipazione finale
Dai distinti saluti ai saluti distanti
Dalla fine spaventosa allo spavento senza fine
Dal malato immaginario all’immaginario malato
Dal principio di prestazione al principio di precauzione
Dalla virologia alla soteriologia
Dalla fantascienza alla santa scienza
...


Condividete con Humachina la vostra lettura in filigrana della storia!

domenica 14 giugno 2020

Avviso ai militanti di Humachina

Cari Humachinisti e Humachiniste, Fratelli e Sorelle,

Purtroppo - a causa di un infausto colpo della sventura (probabile errore informatico) - tutti i commenti dell'ultimo anno, vostri e nostri, sono andati perduti. 
Ogni tentativo di recuperarli si è rivelato infruttuoso.

Ma noi non ci abbatteremo, poiché il pessimismo è un oltraggio portato allo Spirito.

Ci riprenderemo, la cattiva sorte mai prevarrà!

Un abbraccio totalizzante a tutti e a tutte,

Humani Instrumenta Victus

venerdì 22 maggio 2020

La strada è aperta


Io dico a tutti e particolarmente ai popoli dell'Oriente, che è così vicino a noi e che noi conosciamo, con i quali abbiamo avuto contatti per tanti secoli, io dico: credete nella volontà di collaborazione dell'Italia, lavorate con noi, scambiamoci le merci e le idee, vediamo con lo sforzo solidale di tutti, vicini e lontani, se sia possibile uscire da questa depressione che attanaglia gli spiriti e mortifica la vita.

giovedì 23 aprile 2020

Spirito europeo

[...]
Accidenti all’amicizia! 
Accidenti all’amicizia!
L’amicizia la si vede nel momento del bisogno,
le amicizie dell’Italia,
le amicizie dell’Italia,
son svanite come un sogno,
son svanite come un sogno!
Un coltello qui alla gola
alle spalle una minaccia,
ma l’Italia fiera e sola
vince, guarda tutti in faccia!
[...]

mercoledì 15 aprile 2020

Carlo Galli – Il Principe di Niccolò Machiavelli [Festival della filosofia, 17/09/2010, Sassuolo] 5/5


[...] "Il Principe, dopo aver cominciato con l’analisi delle varie forme di principato (quella su cui punta Machiavelli non è il principato nuovo acquisito con la fortuna e con le armi altrui, come quello del Valentino, ma il principato nuovo civile, costruito dall’alleanza tra il principe e il popolo), ci sono i famosi capitoli centrali sulle armi, perché il principe dà le armi al popolo alleato per difendere insieme il principato. 

Poi ci sono i capitoli dei consigli di Machiavelli al principe (far politica non è come curare la salute della propria anima, anzi, facendo politica la salute della tua anima va a pezzi. Per fare politica devi entrare nel male necessitato. Se hai paura, non fare politica).

Infine Machiavelli tira le somme. Siamo al XXIV capitolo. Si capisce innanzitutto perché i principi italiani hanno perduto il potere. Perché sono dei somari integrali che non hanno la minima idea della serietà della politica (questo passaggio è sviluppato poi nel VII libro di un’altra opera di Machiavelli, “L’arte della guerra”). Questi principi non accusino la fortuna per la perdita del proprio principato, ma la loro ignavia, la loro mancanza di prudenza durante i tempi di bonaccia. Arrivati poi i tempi avversi, la tempesta, pensarono solo a fuggire e non a difendersi. Non hanno messo tutto lo sforzo necessario nel far politica. L’immagine della tempesta è presente anche in Hobbes.

Poi si arriva al cap. XXV, in cui si tirano ulteriori somme. Ha trovato Machiavelli una nuova scienza politica, nuova, cioè non aristotelica, non scolastica? La scienza politica infatti c’era già, era il pensiero scolastico, in cui esiste il concetto di verità e il di errore, anche in politica. Verità, ad esempio, è la legge naturale. Per cui è presto detto, una politica che contraddica la legge naturale è sbagliata.

No, Machiavelli non ha trovato una nuova scienza politica. Egli ha piuttosto provato l’incalcolabilità della politica. Ciò non significa che la politica però consista nello stare fermi e seduti e farsi travolgere dal caso, da tutto ciò che ci capita. Significa altro. Cioè che il mondo è governato dalla fortuna e dalla provvidenza divina (tesi scolastica di Tommaso-Dante): la fortuna è ministra ed esecutrice della provvidenza di Dio. La fortuna è dovuta al fatto che le cose del mondo sublunare sono corrotte e quindi imprecise, però tutto ciò dipende dalla volontà di Dio (quindi non c’è problema). E inoltre esiste una norma rispetto alla quale orientare le cose del mondo, benché imprecise.

Machiavelli mette insieme due posizioni diverse, una, aristotelico-tomista, che sostiene che la fortuna/il caso è una forma bassa di essere, e la posizione stoico-epicurea, per cui la fortuna è invincibile e il saggio vi resiste nella propria interiorità. Però entrambe le posizioni non gli garbano. 

Machiavelli è portatore di una terza via. Il rapporto tra soggetto e fortuna può essere descritto in termini metafisici (come in Aristotele e Tommaso), in termini morali (il sapiente che resiste ai colpi di fortuna o del fato), oppure in modo machiavelliano: l’azione virtuosa in vista della gloria.

Vuol dire che per Machiavelli la fortuna esiste, e che allora il mondo non è fatto per l’uomo, non è razionale né pienamente razionalizzabile. Però l’uomo può tentare di porre argini. La fortuna è un fiume, e un fiume può diventare terribile quando c’è la piena e nessuno ha preparato gli argini. Ma se prima hai preparato gli argini, allora per un po’ di tempo potrai tenere il fiume nel suo alveo.

La fortuna, da un lato, e il libero arbitrio umano – inteso non come libero arbitrio conoscitivo, ma come libera energia d’azione –, dall’altro, sono i due protagonisti.

Non è vero che alla fortuna puoi opporre solo il sapere (che ti dimostra che quello che ti è capitato per caso non ti è capitato per caso), oppure, al contrario, la fortezza interiore (che ti consente di non farti smuovere nell’interiorità da ciò che capita nel mondo). C’è il terzo modo, il modo attivo. Ovvero: c’è la fortuna, ma noi mettiamo gli argini, che però non durano per sempre. Non c’è l’argine perfetto che non cederà mai al colpo della piena. Qui Machiavelli barcolla. Sostanzialmente dice: se c’è un principe molto prudente che sa andare d’accordo coi tempi, allora costui ha trovato l’argine perfetto. 
Ma andar d’accordo coi tempi vuol dire che tutto ciò che fai si accorda con l’epoca in cui vivi. Se l’epoca cambia, è impossibile trovare un uomo che sappia regolare sempre il proprio agire in tutte le variazioni dei tempi. Prendi ad esempio Giolitti prima e dopo la I guerra mondiale. Prima governa meravigliosamente, poi è travolto.  Era sempre lui, ma i tempi erano cambiati.

Quindi, tirando le somme, tra uomo e fortuna comanda la fortuna. Però questo non deve condurre all’inattività, al contrario. Bisogna continuamente tentare di “mettere barbe”, fondazioni, argini pur nella consapevolezza della crisi.

La fortuna è come una donna (nell’iconografia è dipinta così), che va battuta con impeto per domarla in quanto ribelle. Le donne, dice, preferiscono essere corteggiate da uomini impetuosi piuttosto che da uomini timidi. Il consiglio di Machiavelli è di comportarsi con la fortuna così come ci si comporta con le donne, battendole ed essendo impetuosi. 

Ciò porta a successo nel breve-medio periodo. Nel lungo periodo vince la fortuna, cioè il cambiamento dei tempi e la complessità del mondo. La politica di Machiavelli è un incompiuto michelangiolesco, come i Prigioni, come la Pietà Rondanini. La massima espressione della potenza plastica del rinascimento italiano, che, proprio perché è massimamente consapevole di se stessa, rifiuta la forma finita. Machiavelli dà della politica questa immagine, quella di una potenza plastica espressiva che non ha una configurazione finita. Michelangelo cioè non ha lasciato com’era il blocco di marmo, l’ha scolpito, ma a un certo punto ha pensato che non sarebbe mai riuscito a dare la raffigurazione di tutta la possibilità di umanità che c’è nell’umanità, e che sarebbe stato meglio lasciarlo incompiuto.

La scommessa di Machiavelli la vince Hobbes, pur perdendo tutto. In che modo? Basta distruggere il tempo, che col suo cambiamento distrugge l’uomo politico e la sua costruzione. Si tratta quindi di tenere il tempo sotto il totale controllo dell’umanità, cioè azzerarlo, fare la rivoluzione e ricominciare da capo, inaugurando l’epoca della fattibilità della politica, della fattibilità dell’ordine, della fattibilità del tempo, della fattibilità dell’uomo. 

Un’idea lontanissima da Machiavelli che anzi ne avrebbe avuto orrore. La politica non è tecnica per Machiavelli, è agone, è conflitto. La politica ha da essere bella prima che sicura. E se la vuoi bella devi correre i tuoi rischi". 

FINE QUINTA E ULTIMA PARTE

PRIMA PARTE
SECONDA PARTE
TERZA PARTE
QUARTA PARTE

martedì 14 aprile 2020

Carlo Galli – Il Principe di Niccolò Machiavelli [Festival della filosofia, 17/09/2010, Sassuolo] 4/5

[...] "Torniamo a Machiavelli. Alessandro VI voleva fare grande il duca, suo figliolo. In Italia c’erano forze amiche e nemiche del papa. Cesare Borgia cercò di rafforzare le amicizie (anche con la Francia) e di spegnere le inimicizie (le famiglie rivali, gli Orsini e i Colonna). Egli sterminò gli Orsini, che si lasciarono imbrogliare. 

Cesare Borgia cercò di mantenere l’ordine e il consenso (non quel genere di consenso che cerca invece il principe civile) in Romagna dando in appalto il controllo a un uomo crudele ed espedito, Remirro de Orco, ferocissimo e sbrigativo. Costui produsse ordine pubblico, ma in modo feroce, repressivo, attirandosi l’odio di tutta la Romagna. Poi Cesare Borgia a Cesena lo prese e lo fece mettere “in dua pezzi su la piazza”. La ferocia dello spettacolo lasciò soddisfatti, atterriti e stupefatti i romagnoli. Ciò piace a Machiavelli, ma non è il tipo di consenso cercato dal principe civile, che si muove in altro modo.


Il Borgia dunque prima prende potere, poi cerca di stabilizzarlo. È il suo meccanismo, grazie anche alla fortuna iniziale che ha avuto, essendo figlio del papa. Però la sua logica è sempre e solo una logica di emergenza. È sempre senza tempo, è sempre in rincorsa affannosa. Egli prova a mettere le fondamenta per il futuro, ma il caso arriverà sempre a rendere critico il suo potere, poiché non ha fondamenta stabili che resistano ai rovesci del caso. 

Poi gli muore improvvisamente il padre, il papa Borgia. Cesare aveva pensato all’eventualità. Provò così a trovare sicurezza in quattro modi: 1- uccidendo tutti i nobili ai quali aveva portato via potere e beni (per evitare che qualcuno di loro divenisse papa e gliela facesse pagare); 2- guadagnarsi il favore di tutti i nobili di Roma con regali; 3-corrompere quanto più possibile il collegio dei cardinali; 4- divenire tanto potente da resistere anche nel caso peggiore, cioè che un nemico divenisse papa.

Di queste quattro cose, alla morte di Alessandro VI, tre gli riescono. La quarta non gli riesce, gli riesce cioè solo a metà.  Ed ecco la maligna fortuna. Mentre il padre muore, si ammala terribilmente pure lui, Cesare Borgia (e a questa coincidenza non aveva pensato), tra l’altro proprio quando in Italia ci sono due eserciti potentissimi e stranieri. I francesi (che vogliono forzare la mano al collegio cardinalizio e fare eleggere un papa francese) e gli spagnoli (nel regno di Napoli, costoro assediano Gaeta per buttare fuori gli angioini). 

Ecco l’errore. Cerca l’accordo con il cardinale Giulio della Rovere, titolare della chiesa di San Pietro in Vincoli. Il Valentino gli promette il voto dei cardinali da lui controllati e necessari per farlo diventare papa (come Giulio II), e in cambio il Della Rovere si impegna ad appoggiare il Borgia. Il della Rovere però apparteneva a una delle famiglie nemiche dei Borgia, ed era indisponibile a dimenticare le ingiurie subite in passato. Ciò sarà cagione della ruina del duca Valentino. A quel punto, infatti, il divenuto papa Giulio II attacca il Valentino, questi è fatto prigioniero, poi fugge in Spagna e laggiù muore.

Valentino s’ingannò, poiché ritenne che un regalo fatto a Giulio II avrebbe fatto passare un colpo di spugna su tutte le precedenti ingiurie inflitte dai Borgia ai della Rovere. Questo mezzo funziona però solo con i poveretti e gli indegni, che puoi travagliare tutta la vita, meritandoti il loro odio, ma di cui puoi ottenere facilmente la sottomissione con un beneficio. Ma quando hai di fronte un grande, un potente che hai danneggiato in passato a più riprese, questo metodo non funziona.

Il Valentino s’è sbagliato, ha commesso un errore perché ha dovuto agire in situazione di necessità, e lui sempre agiva in situazione di necessità. Era uno spericolato, e alla fine prima o poi così si inciampa.
Non è così che si fa politica, secondo Machiavelli, nonostante le doti politiche eccezionali del Borgia.

Machiavelli afferma – alla fine del capitolo – che il Valentino, avendo errato, va ripreso e biasimato.

“E chi crede che ne’ personaggi grandi beneficii nuovi faccino dimenticare l’ingiurie vecchie, s’inganna. Errò adunque il Duca in questa elezione, e fu cagione dell’ultima rovina sua”.

Ma solo poche righe prima egli scrive che non saprebbe come riprenderlo. In un certo senso sarebbe anzi un modello da imitare per la sua anima grande (soprattutto dovrebbero imitarlo coloro che hanno preso il potere con la fortuna o con le armi di altri). Ai suoi disegni, infatti, si oppose solo la sventura (brevità della vita di Alessandro VI e la sua malattia).

“Raccolte adunque tutte queste azioni del Duca, non saprei riprenderlo, anzi mi pare, come io ho fatto, di proporlo ad imitare a tutti coloro, che per fortuna e con l’armi d’altri sono saliti all’imperio. Perchè egli avendo l’animo grande, e la sua intenzione alta, non si poteva governare altrimente; e solo si oppose alli suoi disegni la brevità della vita di Alessandro, e la sua infirmità.
Chi adunque giudica necessario nel suo Principato nuovo assicurarsi degl’inimici, guadagnarsi amici, vincere o per forza o per fraude, farsi amare e temere da’ populi, seguire e riverire da’ soldati, spegnere quelli che ti possono o debbono offendere, e innovare con nuovi modi gli ordini antiqui, essere severo e grato, magnanimo e liberale, spegnere la milizia infedele, creare della nuova, mantenersi le amicizie de’ Re e delli Principi, in modo che ti abbino a beneficare con grazia, o ad offendere con rispetto, non può trovare più freschi esempli, che le azioni di costui”. 
Ne fa insomma un panegirico grandioso. Queste azioni, che sono quelle che deve fare un principe nuovo che acquista il principato per le armi altrui (in tal caso di suo padre) e per fortuna, lui le faceva meravigliosamente. Cionondimeno solamente si può accusarlo della creazione di Iulio pontefice. E in questa faccenda egli fece una cattiva scelta.
È una pagina bellissima, ma che cosa ci dice sotto il profilo teorico?

Insomma, in politica il concetto di errore ha senso? Se sì, allora vuol dire che c’è un modo giusto, corretto, logico, efficace di fare politica, basta impararlo e tutto funziona. 
L’errore è lo scostamento rispetto alla verità. 

Giulio II è stato un errore per Borgia? Oppure è stato colpito dalla cattiva fortuna? Machiavelli non risponde in questo capitolo, il che significa che la politica può essere oppure no oggetto di scienza? Se lo è, allora vuol dire che essa è conoscibile. Esiste un logos della politica? Se c’è, allora esiste il concetto di errore. È la domanda chiave. Il mondo può essere umanizzato? La fortuna può essere in linea di principio sconfitta? La politica può essere l’azione che trasforma il mondo a misura d’uomo? 

Ogni razionalista, ogni illuminista, anche ogni marxista risponde di sì. Infatti razionalismo, illuminismo, marxismo consistono per l’appunto nell’eliminazione della fortuna dalla politica. La politica si fonda sulla necessità storica o sul fatto che la ragione umana, se ben adoperata, senza errori, produce ordine ed espelle il caso.

È ancora l’idea che noi abbiamo della politica. Noi, tutte le volte che c’è un problema, diciamo “e dov’è il governo”? C’è il terremoto, colpa del governo; c’è un maremoto, colpa del governo; se cade un meteorite qui, colpa del governo che non ha pensato che poteva cadere un meteorite. 
Perché noi moderni ragioniamo così, noi abbiamo la pretesa che il nostro sapere pratico, cioè la nostra tecnica, ci risolva tutto, ogni caso. Dall’assicurazione sulla vita all’assicurazione contro le malattie, dall’assicurazione contro le invasioni barbariche all’assicurazione contro tutto, la politica per noi è sicurezza.

E dunque ci sono delle scienze che spiegano come si ottiene la sicurezza. Allora Machiavelli è un politologo mancato, cioè uno che pensava che la politica fosse passibile di scienza, di conoscenza razionale certa, sulla base della logica verità/errore? E poi, essendo ancora arretrata la mente umana, non è potuto diventare un politologo formalizzato come Almond?

È un politologo del Cinquecento, Machiavelli? Ha senso per lui dire “errò il duca Valentino”, cioè non ha rispettato la tal legge della politica? Oppure Machiavelli è uno che pensa che la politica non possa mai in nessun caso essere oggetto di scienza nel senso di conoscenza razionale certa? Non perché la politica non meriti tutto il nostro impegno intellettuale, ma perché – nonostante lo meriti – è fatta di una materia che sfugge per definizione al calcolo? Cioè l’impegno consiste nel confrontarsi con l’incalcolabilità del mondo? L’incalcolabilità del mondo è una brutta cosa, pensata fino in fondo fa paura.

Cioè significa che il mondo non è normabile, ma è un insieme di eccezioni scarsamente controllabili. Anomalia o norma è il segno della politica"? [...]

FINE QUARTA PARTE

PRIMA PARTE
SECONDA PARTE
TERZA PARTE
QUINTA PARTE

lunedì 13 aprile 2020

Carlo Galli – Il Principe di Niccolò Machiavelli [Festival della filosofia, 17/09/2010, Sassuolo] 3/5

[...] "Il Principe è un’analisi tipologica delle forme politiche. Quali sono le forme politiche? Si parla di Stati (o repubbliche) ereditari e di forme politiche nuove, cioè non pervenute per eredità, e che quindi vengono formate. Quelle nuove poi, secondo il tipico metodo dicotomico del ragionamento di Machiavelli, possono essere acquisite o con la virtù o con la fortuna. 
Inoltre possono essere acquisite attraverso i delitti, e poi – altro modo ancora – questi principati nuovi possono essere ottenuti con il consenso (principati civili), e il consenso può essere a sua volta il consenso dei nobili o il consenso del popolo. 

Quali sono le differenze tra un principato nuovo acquisito attraverso la fortuna e un principato nuovo acquisito attraverso la virtù? Intanto hanno in comune il fatto che non sono civili. Cioè questo principe nuovo non ha cercato il consenso di nessuno, egli agisce sostanzialmente da solo. 
Qual è la differenza tra chi agisce da solo attraverso la virtù e chi agisce da solo attraverso la fortuna? La differenza, esplicitata nel VI capitolo, è questa: chi agisce attraverso la virtù è sostanzialmente uno che cerca di calcolare in anticipo – la dimensione del tempo è fondamentale – ciò di cui avrà bisogno in futuro. Egli segue il ragionamento del “se voglio questo, allora devo prepararmi facendo quest’altro”. Dunque, questo principe nuovo, non civile, che si prende il principato nuovo attraverso la virtù, di cui è esempio fugace Francesco Sforza, è qualcuno che prima mette le fondamenta. Si mettono prima le fondamenta del proprio potere attraverso una durissima e lunghissima opera di preparazione (faticosa), poi, con estrema facilità, il principe prende il potere. Ma prima di prendere il potere deve passare attraverso una lunghissima fase preparatoria, tutta approntata da lui. Poco divertente. A questo tipo di principe nuovo, Machiavelli dà poco spazio. Dà molto spazio invece al principato civile, cioè al principe che cerca il consenso, o del popolo o dei grandi (dei nobili).

L’altro modo, quello che consiste nel prendere il potere attraverso la fortuna, trova una trattazione celeberrima nel cap. VII del Principe, cioè quello nel quale si descrive la breve vicenda del duca Valentino, cioè di Cesare Borgia, figlio naturale del papa Alessandro VI Borgia. Egli percorre come una meteora la politica italiana negli anni finali del Quattrocento, e poi è sconfitto e messo fuori gioco da un altro grande papa che succede al padre di lui, cioè da Giulio II. 
Non è questo, come volgarmente si è ritenuto, il modello del principe per Machiavelli. Cesare Borgia è lungamente analizzato, anche con simpatia (lo conosceva personalmente), con grande partecipazione esistenziale, per dimostrare – attraverso la sua vicenda – che la fortuna è onnipotente. Nemmeno il migliore, il più intelligente, il più acuto degli avventurieri, se resta un avventuriero, fonderà qualcosa di stabile.

Il modello di Machiavelli è piuttosto il principe nuovo civile, quello che costruisce il consenso. Cesare Borgia il consenso lo cercava solo con spettacolari ondate di violenza sanguinaria. L’uomo politico strutturato come il Valentino lavora alla rovescia: prima costruisce e poi fa le fondamenta. Prima, con gran facilità (è il figlio della fortuna), con intuizione spettacolare (capace com’è di servirsi del caso, delle opportunità, delle circostanze) prende il potere. Poi, con enorme fatica e sostanziale insuccesso, cerca di dare stabilità a quel potere. Non fonda lo Stato, prima lo crea, poi cerca di fondarlo.

Ma uno Stato creato con la fortuna e con un’intelligenza tutta tattica non si riesce mai a stabilizzare. Nemmeno uno bravo come Cesare Borgia ci riuscì. Machiavelli è ammirato. Gli Stati che vengono subito, che crescono improvvisamente come funghi, come tutte le altre cose della natura (lo Stato è un pezzo di natura: qui è operativo il potente naturalismo rinascimentale, lo Stato non è ancora l’artificio tecnico-geometrico che sarà da Hobbes in poi) che nascono e crescono presto, non possono avere le barbe (le radici) e il primo soffio di vento le fa cadere. L’uomo che diventa principe nuovo grazie alla fortuna, quelle fondazioni che i principi “normali” fanno prima di divenire principi, egli le fa di poi. Il che è assai disagevole. 

Cesare Borgia, acquistò lo Stato con la fortuna del padre, e con quella lo perdette. Il duca Valentino non era però un raccomandato, perché era bravissimo. Egli è prudente e virtuoso. Prudente, cioè capace di vedere e di pensare avanti, e virtuoso, cioè energico.  Il padre lo aveva aiutato moltissimo, ma lui era bravissimo. Cercò con ogni mezzo di mettere radici nello Stato che stava costruendo, ma questo modo di lavorare non funziona.

Benché fosse bravissimo, gli capitò una cosa che era impossibile prevedere. Non fu per sua colpa se cadde. Fu sconfitto dalla malignità della fortuna, ma non commise nemmeno un errore. Però Machiavelli è qui contraddittorio. Se hai fatto un errore, se commetti uno sbaglio, anche uno solo, allora hai torto. L’errore di Cesare Borgia è stato il rovescio della fortuna (non dipeso da lui). È un uomo da portare come esempio, il caso ha avuto la meglio, sì, ma non per colpa dell’uomo. Egli ha parato tutto, tranne l’ultimo caso. Quello è stato tuttavia l’errore. 
Machiavelli qui si sta sforzando di pensare l’impossibile, cioè il rapporto tra l’ordine e il caso. Se sei sempre costretto a rispondere colpo su colpo, prima o poi sei sconfitto. Del resto non esiste uomo che riesca a far fronte vittoriosamente a tutti i casi della vita. Se si è sempre costretti a rispondere colpo su colpo, prima o poi arriva il colpo che non avevi previsto. Si può ingannare qualcuno sempre, si possono ingannare molti per un po’, ma non si potrà mai ingannare tutti sempre. Cioè, la politica è sempre instabile.

Come uscire da questa logica? Quando, anziché affidarsi all’ardimento, all’azione del singolo, ci si affida alla scienza. Ma allora non è più Machiavelli, bensì quel noioso genio di Hobbes. Mentre Machiavelli è un genio non noioso. Hobbes sostiene che commettere errori è troppo rischioso, e che occorre inventare il modo scientifico per impedire la vittoria del caso sull’azione umana. Il prezzo terribile da pagare è la perdita della libertà. Qualcosa che Machiavelli non avrebbe mai potuto pensare. Del resto Machiavelli e Hobbes sono separati da centoquaranta anni di guerre civili di religione, che hanno fatto passare agli europei la voglia di combattere contro la fortuna e contro chiunque altro, e che hanno fatto solo venire voglia della pace ad ogni costo.

Lo Stato moderno è quello di Hobbes: basta con la storia del conflitto virtù/fortuna, costa troppo. La politica ha altri fini rispetto al produrre gesta gloriose che possano essere ricordate dai posteri. Il vero fine della politica moderna è la produzione della pace, della legge, dell’ordine. Così non ci si fa male. È un altro mondo. Machiavelli non è il padre della politica moderna. È molto di più. Machiavelli è il padre di un’alternativa alla politica moderna, che non ha mai preso vita del tutto, perché troppo instabile e costosa da praticare (ma c’è questa idea ancora in Spinoza, che ammirava Machiavelli). C’è Machiavelli laddove si ragioni in termini di conflitto e non di ordine".[...]

FINE TERZA PARTE

PRIMA PARTE
SECONDA PARTE
QUARTA PARTE
QUINTA PARTE

domenica 12 aprile 2020

Carlo Galli – Il Principe di Niccolò Machiavelli [Festival della filosofia, 17/09/2010, Sassuolo] 2/5


[...] "In contemporanea (interrompendo la stesura dei Discorsi), Machiavelli scrive il De Principatibus (il Principe). È non solo il libro più famoso, più letto, più commentato, più tradotto, più maledetto della storia culturale europea. Se c’è un libro importante nella sua Wirkung, nella sua efficacia, è questo. Ma è pure un libro meraviglioso, scritto in una lingua non letteraria, in fiorentino volgare non illustre, una lingua potentissima, densissima, estremamente espressiva, che ha una capacità evocativa, oltre che di profondità intellettuale, assolutamente unica nella storia italiana. Nessuno ha mai scritto di una scrittura funzionale (che vuole cioè trasmettere dei concetti) in modo così meraviglioso come Machiavelli. Senza voler fare il letterato.  

Qual è l’assunto fondamentale della politica di Machiavelli? Abbiamo detto che la politica è esposta al caso, alla fortuna. Non c’è modo di sottrarsi alla fortuna. Con la fortuna devi fare i conti, non esiste strumento logico o pratico che esoneri dal fare i conti col caso.
Perché questa enfasi su questo punto? Perché tutto il nostro modo moderno di pensare alla politica è invece centrato sull’idea che la politica abbia come unico obiettivo quello di esonerarci dal caso. Cioè la politica è pensata come un sistema di tecniche che servono come assicurazione sulla vita, e poi sulla qualità della vita. 

Machiavelli è per l’appunto un teorico del fatto che si deve amare la vita scomoda e non la vita comoda. Non è possibile avere la vita comoda. Oppure è possibile la vita comoda, però bisogna pagare il prezzo terribile della vergogna e dell’irrilevanza. Cioè si può passare la vita senza correre rischi, o pensando soltanto ad accumulare ricchezze, quasi tutti gli uomini lo fanno. Però gli uomini e gli Stati che si comportano così non sono degni nemmeno di essere ricordati, non lasciano traccia di sé nella storia, che è invece l’unico obiettivo, l’unica molla esistenziale che fa sì che gli uomini stiano a questo mondo in modo degno.  

Certo si può stare a questo mondo in modo indegno, cercando la sicurezza e la ricchezza. Però non è politica. Politica è stare al mondo in modo degno affrontando la fortuna, sapendo che il mondo non è apparecchiato per l’uomo. Bisogna pagare il prezzo di questo. Ciò significa essere più pronti ad aggredire la fortuna che non a difendersi dalla fortuna. E sapere che prima o poi, per quanto tu sia bravo, competente, astuto, abile, ti capiterà qualcosa alla quale non avevi pensato. E morirai. Non solo, si distruggerà la tua costruzione. Questo è inevitabile. Però, se sei stato un politico sul serio, i posteri si ricorderanno di te, che è l’unica cosa che vale per essere qualcosa di diverso da miserabili mortali privi di ogni significato. Non è molto cristiano, non gli importa niente della salvezza dell’anima. Non c’è niente da salvare. C’è soltanto da scegliere tra l’essere irrilevanti oppure il tentare di dare una forma, benché provvisoria, al mondo. E in questo Machiavelli è ancora grandiosamente umanista. 

Chi vuol fare politica desidera “acquistare”, cioè ingrandire il proprio potere, il proprio Stato. O te ne stai fuori della politica (come Orazio, che diceva di sé di vivere come un maiale nel gregge di Epicuro) oppure ci entri e accetti le dinamiche obbligate. La principale delle quali è: il potere c’è solo nella misura in cui deve essere aumentato. Non può non essere aumentato.

È una dinamica fatale. Gli uomini naturalmente desiderano acquistare. E sempre, quando gli uomini lo fanno che possono, saranno laudati o non biasimati. Ma quando non possono e vogliono farlo in ogni modo, qui è lo errore e il biasimo. Questa è la logica intrinseca alla politica. Il potere deve essere aumentato. Non può restare fermo. 

Ecco perché Machiavelli, pur avendo praticamente inventato la parola, è lontano dal concetto di Stato (= situazione stabile). Per Machiavelli è intrinsecamente instabile, poiché mosso verso la continua acquisizione del potere. Questa logica ha in sé il proprio premio e la propria pena. Quando entrano in questa logica coloro che se lo possono permettere (cioè quelli che hanno successo), allora questi hanno la lode, o almeno il non-biasimo. Gli altri invece, che non sanno fare politica, sbagliano, falliscono, pagano col biasimo. La politica non è il regno dei buoni sentimenti. Non si dice bravo a un perdente. Si dice bravo solo a chi vince". [...]

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