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venerdì 8 aprile 2011

Aspetti della guerra globale

La stessa organizzazione attuale del potere mondiale sembra oggi implicare l’attività bellica come azione costitutiva. La guerra ha perso il suo carattere di eccezionalità ed è diventata strumento/dispositivo abituale di mantenimento dell’ordine, di organizzazione, gerarchizzazione e “pacificazione” del sociale (indicative a riguardo sono le diciture “operazione di polizia internazionale” e “operazione di pace”, risalenti ai tempi della prima guerra del Golfo ‘90-‘91). Il biopotere trova allora nella guerra, a dispetto dell’opinione comune, una procedura di preservazione della vita stessa (enduring freedom è l'espressione fatta propria dagli USA per denotare ufficialmente le operazioni militari in Afghanistan). Questo perché oggi non si combatte più tra popoli (cioè tra le espressioni, da Hobbes a Hegel, di rispettivi enti giuridici nazionali) in uno spazio esterno, bensì contro una serie di pratiche ostili, ritenute illecite, che prendono complessivamente il nome di “terrorismo”. Rousseau, ai tempi del vigore moderno dello Stato e dello ius publicum europaeum, così scriveva nel Contratto sociale: “La guerra non è dunque una relazione da uomo a uomo, ma da Stato a Stato, nella quale i singoli individui non sono nemici che accidentalmente, non come uomini e nemmeno come cittadini, ma come soldati: non come membri della patria, ma come suoi difensori. E infine ogni Stato non può avere per nemici che altri stati, e non uomini [...]. Lo straniero, sia re, sia privato, sia popolo, che rubi, uccida, o detenga sudditi senza dichiarare guerra al principe, non è un nemico, è un brigante”.
Oggi, nel pieno della crisi della moderna sovranità statuale, i terroristi non sono espressione di un paese avverso determinato, ma colpiscono ovunque (New York, Madrid, Mosca ecc.) come un nemico pubblico (un brigante, un criminale) globale, ubiquitario e interno ai confini. Non si rifanno a una mediazione trascendente identitaria quale è la sovranità nazionale. Questa è la grande differenza con le guerre che hanno caratterizzato l’Europa lungo tutta l’età moderna dopo il 1648 (almeno fino alle guerre mondiali del XX secolo). Di conseguenza, quando oggi ci si appella (inutilmente) al diritto internazionale (vedi Habermas), lo si fa sulla base di considerazioni anacronistiche, perché nel frattempo (nella cosiddetta post-modernità) i conflitti bellici hanno cambiato natura. La guerra, da conflitto ordinato e limitato, si è trasformata in azione poliziesca di controllo dell’ordine pubblico, la quale per definizione non può che essere continua, pervadente, permanente, globale.
Siamo forse in presenza di un ritorno al concetto di guerra giusta? In molti discorsi politici attuali (vedi lo stesso Obama, in occasione del conferimento del premio Nobel per la pace 2009) l’espressione è tornata in auge, proprio in riferimento alla guerra al terrorismo (conflitto di civiltà, occidente vs. Islam, Bene vs. Male ecc.) e in relazione alle diverse operazioni militari condotte in difesa dei diritti umani (Kosovo 1999, per esempio, e ora Libia 2011). Che cosa succede quando il concetto di “giustizia” si congiunge con quello di “guerra”? “La giustizia ha il compito di universalizzare il concetto di guerra oltre ogni interesse particolare in nome dell’umanità intera. A questo riguardo è bene ricordare che i pensatori politici moderni si erano proposti di bandire il concetto medievale di guerra giusta che aveva avuto il suo apogeo durante le crociate e in occasione delle guerre di religione, sostenendo che esso estendeva la guerra al di là dei suoi scopi (cfr. Hobsbawm) e la confondeva con altri ambiti, come la morale o la religione. La giustizia non è compresa nel concetto moderno di guerra” (Moltitudine, Hardt-Negri). Per i moderni la guerra è un mezzo per soli fini politici, il che sottolinea soprattutto la volontà di limitarla a una “funzione necessaria e razionale” (come era per Clausewitz). Ma se oggi il nemico è assimilato all’idea di Male questo significa legittimare ideologicamente una soluzione bellica in senso assoluto, di fatto eccedendo il limitato ambito dell’azione politica. Riferirsi alla giustizia congiuntamente alla guerra conduce, come in età pre-vestfaliana, alla giustificazione di un’azione militare aggressiva attraverso un fondamento morale, con effetti devastanti.


MM