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giovedì 28 luglio 2011

IDOLA, FuORI! 5 - La pace dentro il conflitto


Guerra o pace? Secondo un punto di vista materialistico, nel nuovo ordine della globalizzazione non è più possibile esprimersi in questo modo, ammesso che lo sia mai stato.
Vale a dire che non c’è alternativa, che non si danno le condizioni oggettive per una scelta esclusiva: guerra e pace vedono piuttosto sfumare reciprocamente i propri limiti in una dimensione ibrida e complessa.
Sul piano internazionale, l’ambiguità ha svelato nuovamente l’insufficienza del diritto nel porre un freno alla violenza. I movimenti pacifisti, evidentemente costretti a rinunciare a formule ireniche, devono muoversi all’interno di questo orizzonte di consapevolezza. Il discorso è valido a ogni livello, nazionale e internazionale.

Affinché non si riduca ad astratta ideologia, la questione del pacifismo va infatti pensata su un terreno politico, vale a dire intrinsecamente conflittuale. In questo modo, la pace cessa di essere una semplice opzione o scelta aprioristica per configurarsi, in quanto prassi a sua volta costituente, nei termini di una nuova lotta di classe. Non semplicemente nel senso di lotta per il possesso e la gestione dei mezzi di produzione (la classica emancipazione del proletariato), ma anche come attività immanente e democratica di libertà e di creazione di valore. Un sistema aperto, a-teleologico, antagonistico, “rischioso” (Machiavelli) che non sollecita sintesi dialettiche e che sfugge a ogni esito dispotico. Così mentre si produce la pace, si sottrae spazio alla guerra. La pace appunto – quando è qualcosa di reale – è lotta politica, non ordine pubblico o pacificazione ottenuta attraverso la minaccia e la violenza degli apparati repressivi di Stato. La mera cessazione di belligeranza è il grado zero della pace, ne indica il livello più miserabile e animale, poiché fondato sulla paura della rappresaglia del potere.

È l’idea di pace interna secondo il cinismo del Viminale, per dirla in parole povere, cui corrisponde un’esistenza umana declassata a nuda vita, a zoè. Mi piace allora qui ricordare Lucien Febvre, “è dell’uomo la paura, ma più ancora il trionfo sulla paura”.
Una popolazione terrorizzata è una popolazione scissa dalla sua potenza costituente, indebolita dal rapporto di separazione governante-governato, degradata a corpo sociale completamente depoliticizzato. Machiavelli ci insegna invece come sia piuttosto l’antagonismo politico interno (che non sfocia in guerra aperta) a rendere la città potente verso l’esterno, secondo la coincidenza di “buone leggi” e “buone arme”. È la società attraversata dal conflitto temperato dalla politica che permette agli uomini di diventare tali, di esercitare virtù, di sviluppare la potenza con cui si entra reciprocamente in competizione per creare nuovi valori collettivi.


È la lotta che esclude e sostituisce la guerra come puro annientamento e distruzione. Allora sì, la pace diventa il solo criterio legittimo col quale valutare la qualità di una costituzione. Pace che non si esaurisce in sterile e perpetua acquiescenza, ma che si riproduce continuamente nella conflittualità del rapporto politico. E questa è anche la via che conduce a una vera partecipazione democratica. È la prassi che denuncia come impostura l’idea di democrazia come oggettività disponibile a manipolazioni da parte dell’unità assoluta del potere, come automaticità di sistema o come mezzo a vantaggio dell’élite (termine che preferisco a “casta”) per selezionare i propri quadri professionali e dirigenti. La questione, come sempre, è ontologica prima ancora che politica, perché la democrazia così intesa è soprattutto processo creativo di democratizzazione. Non è dunque un banale complesso di procedure date per preservare e garantire la pace, ma è la pace stessa nel suo costruirsi politico e antagonistico. Secondo questo criterio, un esecutivo che soffoca la lotta insorgente dal basso, che tratta i cittadini come carne da manganello o peggio – come a Genova o a Chiomonte –, è un governo antidemocratico e illegittimo.



4 commenti:

  1. E dall'altra parte questa società civile che in gran parte attua strategie pacifiche di convincimento verbale e logoramento concreto dell'oppositore, sta facendo sempre più adepti: hai visto il video che avevo postato sull'attivista che parlava ai poliziotti che non osavano guardarla negli occhi e letto la notizia dei 300 alpini No-Tav che stanno cercando di convincere, con la forza simbolica dello spirito di corpo, i loro 'fratelli' dall'altra parte della barricata a non 'combattere'? Dita incrociate e resistenza non violenta - ma concreta, attiva, impegnata - a oltranza.

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  2. Ho visto, Minerva. Nel video si esprime anche quella separazione abissale che impedisce davvero di credere alla favola del "parlamento specchio del paese". Purtroppo l'istituzione non assomiglia quasi mai alla società civile migliore, mentre sembra quasi coincidere con quella peggiore. Nonostante ciò, bisogna resistere alle pulsioni antipolitiche, anche se a volta sono messo a dura prova. Cuore più intelligenza. Ciao :-)

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  3. Al momento troppe realtà sono tenute fuori dal gioco della democrazia perché questa possa dirsi rappresentativa. Bisogna intendere il fine dell'antipolitica perché questo è un fattore decisivo.
    Una strategia che ha come fine quella di creare il caos, laddove si spiana il terreno a forze autoritarie quando non totalitarie, oppure una strategia tesa a delegittimare coloro che hanno fatto dei partiti dei comitati d'affari completamente avulsi dalle esigenze dei cittadini, e che miri a costruire una classe politica nuova ed eticamente vicina alle richieste di chi vuole un ritorno alla politica come servizio.

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  4. @sassicaia molotov
    E' vero, troppe realtà sono tenute fuori, e questo dà l'idea di quanto le destre siano culturalmente egemoni oggi in Europa, non solo in Italia. Il caso recente dell'Ungheria e la strage norvegese, solo a titolo esemplificativo, sono più che un segnale. L'Italia patisce anche una classe politica obiettivamente costituita da mentecatti, che sulle rovine dei partiti della I repubblica ha cominciato a produrre corruzione in forme sempre più esasperate. Per questo io credo nei movimenti, nella loro capacità di interagire dialetticamente con le istituzioni. Il movimento, tuttavia, privo di un'idea politica forte, è destinato a disperdere la propria potenza e a rendersi subalterno ai tanti populisti di turno. Per questo credo ancora nella forma partito, in un'avanguardia che sappia aggregare, orientare e imprimere una forma politica. Quando parlo di partito non mi riferisco certamente a quelli attuali. E' un soggetto che va costruito da capo e dal basso, attorno all'interesse aggregativo del lavoro (questo almeno per me e per noi, che crediamo ancora in un'azione politica di sinistra ;-)) Ciao!

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