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sabato 14 maggio 2011

Grigiore, bêtise, banalità - tre categorie per leggere il Novecento e l'epoca contemporanea

Esiste una foto, pubblicata sul frontespizio del capolavoro di Karl Kraus, Gli ultimi giorni dell’umanità, che ritrae il cadavere di Cesare Battisti, impiccato dagli austriaci nel 1916 per tradimento. Il corpo, appeso a una trave, è circondato da un gruppo di astanti, ma la rappresentazione non ha nulla della ieraticità di una crocifissione. Gli uomini attorno a Battisti sono i suoi carnefici. Grottescamente in posa, soddisfatti di poter presenziare all’evento di cui si sono appena resi protagonisti. Appagati dalla consapevolezza di aver fatto un buon lavoro. Sul loro volto è stampato non un sorriso, ma un ghigno. Stupido, contratto, osceno, di circostanza, borghese, per nulla sadico o demoniaco. La foto venne fatta circolare durante la guerra sottoforma di cartolina postale, per mandare i saluti a casa.
Dall’assassinio di Battisti alle torture di Abu Ghraib in Iraq intercorrono molti anni. Il Novecento intero, o quasi. È il secolo che ha conosciuto la macelleria di Verdun nel 1916, i blitz devastanti della seconda guerra mondiale, lo sterminio sistematico e programmato di milioni di esseri umani. Eppure si direbbe che da quella immagine consunta e in bianco e nero alle foto digitali scattate dalle guardie carcerarie nella prigione irachena non sia passato che un istante. Giusto il tempo di premere nuovamente il dito per un secondo scatto.
I visi sogghignanti dei seviziatori statunitensi, banalissimi, tipici della tranquilla e dormiente provincia americana à la Julien dunkey boy di Korine, si sovrappongono perfettamente a quelli dei loro omologhi austriaci di cento anni fa.
Sono questi volti a palesare, nell’immediatezza dell’istantanea, un tratto che si direbbe caratteristico della specie umana: la bêtise, la bestialità (che nulla ha a che fare con l’animalità) a più riprese denunciata da filosofi come Gilles Deleuze.
La bêtise è ignominia e stupidità, ci dice Kraus. La bêtise è torpore e acquiescenza. La bêtise è, usando le parole di Pier Paolo Pasolini, incapacità di dissentire.
È lo stesso Deleuze a suggerire un rapporto con le riflessioni di Primo Levi sulla “vergogna di essere uomini” [...]. Vergogna che ci siano stati uomini diventati poi nazisti, vergogna per non aver saputo né potuto impedirlo, vergogna di aver accettato compromessi: Primo Levi chiama tutto questo la “zona grigia”. E questa vergogna di essere uomini la proviamo in circostanze semplicemente ridicole: dinanzi a una volgarità di pensiero troppo grande, dinanzi a una trasmissione di varietà, dinanzi al discorso di un ministro, dinanzi alle chiacchiere di ciarlatani.
Levi ci dice che è necessario abbandonare ogni attitudine dualistica se vogliamo effettivamente comprendere ciò che accadde nei lager nazisti e cogliere la specificità sfumata della “zona grigia”. Dobbiamo cioè evitare di ricondurre ogni cosa a quel tipo di logica binaria che da sempre cerca di codificare il bene e il male in termini assoluti:
La storia popolare, ed anche la storia quale viene tradizionalmente insegnata nelle scuole, risente di questa tendenza manichea che rifugge dalle mezze tinte e dalle complessità: è incline a ridurre il fiume degli accadimenti umani ai conflitti, e i conflitti a duelli, noi e loro, gli ateniesi e gli spartani, i romani e i cartaginesi.
Nei campi di sterminio si venivano a ricreare le gerarchie e le dinamiche tipiche dello Stato totalitario:
Entrava in gioco anche la ricerca del prestigio, che nella nostra civiltà sembra sia un bisogno insopprimibile: la folla disprezzata degli anziani tendeva a ravvisare nel nuovo arrivato un bersaglio su cui sfogare la sua umiliazione, a trovare a sue spese un compenso, a costruirsi a sue spese un individuo di rango più basso su cui riversare il peso delle offese ricevute dall'alto.
Levi ci parla poi del caso di Chaim Rumkowski, a cui i nazisti attribuirono la carica di decano del ghetto polacco di Lodz. Una promozione sociale che non gli venne concessa per particolari meriti o capacità personali (di cui era probabilmente sprovvisto), bensì per il suo ossequio all’autorità gerarchica. Rumkowski riprodusse così nel piccolo, nei confini miserabili e degradati del suo feudo, la stessa struttura di potere a cui era egli stesso soggiogato.
Pretese abnegazione incondizionata dai suoi subordinati e diritto di vita e di morte sui suoi “sudditi”. Non basta: Da questi suoi sudditi affamati, Rumkowski ambiva riscuotere non solo obbedienza e rispetto, ma anche amore. Adottò e adattò la medesima retorica dei Goebbels e dei Mussolini, declinandola in senso proporzionato alla sua autorità.
Questa è la “zona grigia”, con la quale non s’intende affatto legittimare una possibile equivalenza tra vittime e assassini:
Non so, e mi interessa poco sapere, se nel mio profondo si annidi un assassino, ma so che vittima incolpevole sono stato ed assassino no; so che gli assassini sono esistiti, non solo in Germania, e ancora esistono, a riposo o in servizio, e che confonderli con le loro vittime è una malattia morale o un vezzo estetistico o un sinistro segnale di complicità; soprattutto, è un prezioso servigio reso (volutamente o no) ai negatori della verità.
Affermare che siamo tutti colpevoli equivarrebbe a sostenere che “siamo tutti innocenti”: il riflesso di una insinuante volontà di autoassoluzione. Consapevolezza ben presente in Hannah Arendt. E come non ritrovare nella figura di Eichmann le caratteristiche tipiche dell’uomo della zona grigia? Eichmann è il banale grigio burocrate incaricato della deportazione e dello sterminio. Impeccabile nel suo lavoro, tanto da andarne fiero. Un mediocre dalla malvagità agghiacciante, proprio perché privo di qualità particolari o demoniache. Non un mostro sadico.
Ne Il freddo e il crudele, Gilles Deleuze sostiene in effetti l’estraneità assoluta dell’eroe sadico rispetto all’acquisizione, all’esercizio e al compromesso col potere. Di più, il sadico non si giustifica e non si appella a una legge per rendere conto della propria condotta (come fecero invece gli aguzzini nazisti davanti ai loro giudici), al contrario la contesta ironicamente in ragione di una natura superiore e antecedente la legge stessa: "I tiranni non nascono mai nell'anarchia, li vedrete sorgere solo all'ombra delle leggi, o da esse autorizzati". Questo è l'essenziale del pensiero di Sade: il suo odio del tiranno, il modo in cui mostra che la legge rende possibile il tiranno. Il tiranno parla il linguaggio della legge, non ha altro linguaggio. Chigi, nella Juliette sadiana, è un anarchico, Eichmann (o Priebke o chiunque altro) un invalido e impotente uomo di potere. Attribuirgli un’anima perversa che non gli appartiene sarebbe un errore che provocherebbe oltre tutto il classico e pericoloso effetto rassicurante: i mostri, si sa, sono esseri eccezionali, e tali le loro nefandezze; e così Auschwitz non sarebbe stato altro che un caso, un incidente teratologico sulla retta autostrada progressiva della storia. In verità bisogna continuamente vigilare su questi fenomeni e vezzi estetistici, così come li definisce Primo Levi.
Non sfugge alla tentazione di estetismo neppure un programma documentaristico sul Terzo Reich trasmesso recentemente da Rai3 : Tutti gli uomini di Hitler.
Ne riporto di seguito l’incipit:
Sono stati gli ultimi Cavalieri del Male che hanno cercato di conquistare il mondo... erano venuti dal lato oscuro dell’Universo, armati di violenza e seduzione... con superbia hanno scatenato sulla Terra quell’inferno che da sempre abitava in loro... [...] ma alla fine sono stati vinti e ricacciati nelle tenebre... sono gli Angeli del Male del III Reich.
Ben diversamente Orson Welles, come spiega in un’intervista pubblicata su Les Cahiers du cinéma, era convinto che su un soggetto come Himmler, banalissimo bandito, servile e untuoso, grigio, non si sarebbe mai potuto dire nulla di interessante.
Un regista contemporaneo ha d’altra parte ritenuto che fosse possibile raccontare e girare qualcosa su questi uomini. È il caso di Alexandr Sokurov e del suo film Moloch, ovvero un giorno nella vita di Adolf Hitler ed Eva Braun. Una pellicola in cui non c’è spazio per una possibile monumentalizzazione del criminale. L’estetismo (nonostante la splendida fotografia del film) è escluso ed espulso con lucida consapevolezza etica. Hitler, manifestazione di ottusa bêtise, è presentato senza orpelli come uomo nudo alle prese con le sue miserabili ipocondrie, nevrosi e ambizioni borghesi.
E così i suoi gerarchi, nella fattispecie Bormann e Goebbels - piagnucolosi mendicanti di approvazioni e favori -, sono i Chaim Rumkowski della situazione.
Proprio con Rumkowski, Primo Levi chiude la sua riflessione sulla “zona grigia”, una riflessione che nega nettamente ogni possibilità di conforto:
Chi è Rumkowski? Non è un mostro, e neppure un uomo comune; tuttavia molti intorno a noi sono simili a lui. I fallimenti che hanno preceduto la sua "carriera" sono significativi: gli uomini che da un fallimento ricavano forza morale sono pochi. Mi pare che nella sua storia si possa riconoscere in forma esemplare la necessità quasi fisica che dalla costrizione politica fa nascere l'area indefinita dell'ambiguità e del compromesso. [...] in Rumkowski ci rispecchiamo tutti, la sua ambiguità è la nostra, connaturata, di ibridi impastati di argilla e di spirito; la sua febbre è la nostra.

MM