IL BLOG


IL MOVIMENTO REALE AL FOTOFINISH CON LO STATO DI COSE LATENTE.


giovedì 28 luglio 2011

IDOLA, FuORI! 5 - La pace dentro il conflitto


Guerra o pace? Secondo un punto di vista materialistico, nel nuovo ordine della globalizzazione non è più possibile esprimersi in questo modo, ammesso che lo sia mai stato.
Vale a dire che non c’è alternativa, che non si danno le condizioni oggettive per una scelta esclusiva: guerra e pace vedono piuttosto sfumare reciprocamente i propri limiti in una dimensione ibrida e complessa.
Sul piano internazionale, l’ambiguità ha svelato nuovamente l’insufficienza del diritto nel porre un freno alla violenza. I movimenti pacifisti, evidentemente costretti a rinunciare a formule ireniche, devono muoversi all’interno di questo orizzonte di consapevolezza. Il discorso è valido a ogni livello, nazionale e internazionale.

Affinché non si riduca ad astratta ideologia, la questione del pacifismo va infatti pensata su un terreno politico, vale a dire intrinsecamente conflittuale. In questo modo, la pace cessa di essere una semplice opzione o scelta aprioristica per configurarsi, in quanto prassi a sua volta costituente, nei termini di una nuova lotta di classe. Non semplicemente nel senso di lotta per il possesso e la gestione dei mezzi di produzione (la classica emancipazione del proletariato), ma anche come attività immanente e democratica di libertà e di creazione di valore. Un sistema aperto, a-teleologico, antagonistico, “rischioso” (Machiavelli) che non sollecita sintesi dialettiche e che sfugge a ogni esito dispotico. Così mentre si produce la pace, si sottrae spazio alla guerra. La pace appunto – quando è qualcosa di reale – è lotta politica, non ordine pubblico o pacificazione ottenuta attraverso la minaccia e la violenza degli apparati repressivi di Stato. La mera cessazione di belligeranza è il grado zero della pace, ne indica il livello più miserabile e animale, poiché fondato sulla paura della rappresaglia del potere.

È l’idea di pace interna secondo il cinismo del Viminale, per dirla in parole povere, cui corrisponde un’esistenza umana declassata a nuda vita, a zoè. Mi piace allora qui ricordare Lucien Febvre, “è dell’uomo la paura, ma più ancora il trionfo sulla paura”.
Una popolazione terrorizzata è una popolazione scissa dalla sua potenza costituente, indebolita dal rapporto di separazione governante-governato, degradata a corpo sociale completamente depoliticizzato. Machiavelli ci insegna invece come sia piuttosto l’antagonismo politico interno (che non sfocia in guerra aperta) a rendere la città potente verso l’esterno, secondo la coincidenza di “buone leggi” e “buone arme”. È la società attraversata dal conflitto temperato dalla politica che permette agli uomini di diventare tali, di esercitare virtù, di sviluppare la potenza con cui si entra reciprocamente in competizione per creare nuovi valori collettivi.


È la lotta che esclude e sostituisce la guerra come puro annientamento e distruzione. Allora sì, la pace diventa il solo criterio legittimo col quale valutare la qualità di una costituzione. Pace che non si esaurisce in sterile e perpetua acquiescenza, ma che si riproduce continuamente nella conflittualità del rapporto politico. E questa è anche la via che conduce a una vera partecipazione democratica. È la prassi che denuncia come impostura l’idea di democrazia come oggettività disponibile a manipolazioni da parte dell’unità assoluta del potere, come automaticità di sistema o come mezzo a vantaggio dell’élite (termine che preferisco a “casta”) per selezionare i propri quadri professionali e dirigenti. La questione, come sempre, è ontologica prima ancora che politica, perché la democrazia così intesa è soprattutto processo creativo di democratizzazione. Non è dunque un banale complesso di procedure date per preservare e garantire la pace, ma è la pace stessa nel suo costruirsi politico e antagonistico. Secondo questo criterio, un esecutivo che soffoca la lotta insorgente dal basso, che tratta i cittadini come carne da manganello o peggio – come a Genova o a Chiomonte –, è un governo antidemocratico e illegittimo.



lunedì 25 luglio 2011

Fondamentalismo cristiano


E adesso come reagiranno i governi e la comunità internazionale? Come sono soliti fare all’indomani di ogni attentato terroristico, temo. Il rischio è la militarizzazione permanente della società, secondo il convincimento che la vita stessa, per potersi conservare, debba piegarsi al dominio del controllo.


domenica 24 luglio 2011

Postmodernità premoderna


I recentissimi avvenimenti norvegesi offrono l’occasione per una serie di considerazioni che ambirebbero a trascendere il mero dato di cronaca per dimensionarsi dentro un orizzonte più ampio, capace di tenere conto di prospettive di più lunga durata.

A riguardo, vorrei tenere presente anche un altro evento risalente al 2009, ovverosia il conferimento a Barack Obama del premio Nobel per la pace (proprio a Oslo, com’è tradizione).
Tutto ciò allo scopo di fare nuovamente emergere, alla luce dell’immanente dialettica tra modernità e postmodernità, i segni inequivocabili di una plurivoca crisi mondiale. Le categorie (giuridiche, politiche, economiche, sociali etc.) sviluppatesi in età moderna appaiono infatti oggi esautorate, vale a dire incapaci di imprimere nuova forma e di mantenere saldo l’ordine globale. Al contrario, lo scenario attuale sembrerebbe alludere piuttosto a una situazione tipica dell’età premoderna europea, cioè prevestfaliana.

Brevemente, in che cosa è consistita la modernità sotto un profilo politico?

I sovrani europei, dopo il 1648, cioè dopo la fine dell’ultima grande guerra di religione combattutasi sul Vecchio continente, fecero cessare le guerre civili neutralizzandole in un ordine politico, lo Stato, il quale – in nome di Dio – secolarizzava la religione e la utilizzava come esteriorità formale e come strumento ordinativo (si veda a proposito la subordinazione dell’autorità ecclesiastica al potere civile, il gallicanesimo, l’anglicanesimo etc.). La teologia e la ragione divina di età medievale furono così sostituite dal nuovo primato della scienza politica e dalla ragione mondana (di cui il giusnaturalismo era importante espressione).
Il silete theologi in munere alieno di Alberico Gentili acquista qui un valore particolarmente significativo.
Le caotiche guerre confessionali e di fazione cessarono in forza della centralità giuridica dello Stato e di quell’atto originario e indeducibile noto come decisione sovrana (si faccia riferimento a Hobbes, soprattutto nella lettura che ne dà Schmitt). I conflitti civili di religione furono dunque neutralizzati nella guerra ordinata, cosiddetta “in forma”. Il sovrano, dotato del monopolio della violenza, riuscì insomma nell’impresa di imporre la pace all’interno dei confini del proprio regno.
Si generò così un nuovo nomos, un nuovo ordine politico spazialmente determinato: l’Europa degli Stati moderni, che da allora si confrontarono – in pace e in guerra – sulla base di un nuovo diritto internazionale, sorto appunto dopo Westfalia 1648 (e nonostante i numerosi scossoni, tra cui la Rivoluzione francese, questo equilibrio resse fino alla crisi generata dalle guerre civili mondiali del XX secolo). Alla guerra “in forma” corrispose poi una coerente rappresentazione del nemico, determinatasi nella dottrina del “nemico giusto”.

Lo Stato moderno era una macchina in grado di produrre continuamente la pace dentro le proprie frontiere, attraverso organici apparati di polizia utili a reprimere la violenza interna scatenata dal criminale. Il nemico cessava così di essere assimilato al criminale, poiché non era più interno, bensì esterno ai confini (un altro Stato). I nemici (Stati egualmente sovrani) si davano quindi battaglia con eserciti regolari, affrontandosi alla pari – analogamente a un duello –. Esisteva dunque un’importante simmetria che consentiva a due enti giuridici sovrani di rispettarsi anche in guerra. Tra giusti nemici si è tenuti infatti a emettere formali dichiarazioni di guerra, e ci si obbliga a trattare umanamente i vinti. I conflitti terminavano con trattati di pace regolari (inclusivi di un’amnistia), sulla base del reciproco riconoscimento del diritto comune a ciascuno Stato dello jus ad bellum (il diritto a fare la guerra, come strumento valido per condurre la propria politica estera).
La dottrina del giusto nemico liquidava dunque l’antica dottrina della guerra giusta, che durante la prima modernità era servita nella lotta per l’egemonia come giustificazione per un cieco annientamento del diverso (pensiamo solo agli scontri di fazione tra cattolici e ugonotti nella Francia del XVI secolo). La guerra giusta è infatti una guerra condotta secondo una giusta causa contro un nemico degradato a criminale, a eretico, cioè a nemico ingiusto e interno all’ordine politico. Un nemico che si può solo combattere senza scendere a patti, giacché non esiste simmetria.
Certamente chi si è trovato a Oslo-Utoya, durante e dopo la strage, avrà potuto osservare scenari di sangue analoghi a quelli che avrebbe potuto descrivere Grimmelshausen in Germania, durante gli sconquassi della Guerra dei Trent’anni. Quando la politica s’indebolisce e si ritira (gli Stati non sono più da molto tempo ormai i veri agenti della politica internazionale, sopravanzati come sono da altri enti a carattere transnazionale o sovranazionale), il suo spazio è saturato da altre cose, tra le quali il fondamentalismo (non solo quello islamico della jihad, ma anche quello cattolico – come in questo caso –, protestante etc.).
Sicuramente quell’estremista norvegese di destra è un criminale che ha identificato in soggetti ideologicamente distanti dalle proprie posizioni dei nemici assoluti, cioè da distruggere e basta.
Ad aggiungere inquietudine ci pensano poi ovviamente Al Qaeda, ma anche gli Stati Uniti, ovvero – secondo alcuni – la gendarmeria del nuovo impero mondiale. Obama, contestualmente al conferimento del premio Nobel per la pace 2009 – come peraltro facevo notare in un vecchio post –, ha posto esplicitamente l'esigenza di recuperare (secondo formule rinnovate, ma non troppo) la dottrina della guerra giusta contro il terrorismo internazionale, contro coloro che lui stesso definisce “piccoli uomini dotati di rabbia smisurata”.
Si presti attenzione al lessico: li chiama “piccoli”, il che indica asimmetria, e poi allude alla loro aggressività priva di misura, illimitata, senza forma, ingiusta. Criminale. A suo dire, la guerra per ragioni umanitarie giustificherebbe un'azione militare ex justa causa (a proposito ha voluto ricordare la guerra della Nato in Kossovo). Anche perché sembra davvero convinto che i valori morali intrecciati alla politica possano efficacemente servire a limitare la portata devastatrice dei conflitti.

In realtà che cosa succede quando la nozione morale di “giustizia” si congiunge con quella politica di “guerra”? E' la catastrofe, perché spiana la strada a processi di universalizzazione che estendono il concetto di guerra ben oltre i limiti e gli scopi della politica (per definizione limitati), in nome cioè dell’umanità stessa. Correlativamente si attribuiscono al nemico caratteri inumani o disumani, e contro un soggetto così rappresentato ogni strumento rischia di diventare lecito: armi al fosforo, bombe a frammentazione etc. mezzi cioè che non discriminano più tra soldati e civili. Come ho ricordato, la guerra giusta è sinistramente nota in Europa come guerra di annientamento ai danni di un nemico ingiusto, abbassato cioè a livello di criminale (le già citate guerre di religione, ma anche quelle ideologiche contro i “nemici della Nazione”, come nel 1793 in Francia, o le guerre del Novecento condotte verso esseri considerati biologicamente inferiori). Quindi prestare nuovamente all'avversario le fattezze del maligno (come Bush e Obama fanno a proposito del terrorismo internazionale, e come dall’altra parte fa Al Zawahiri) significa legittimare ideologicamente una soluzione bellica illimitata e permanente, con conseguenze che sono ormai ampiamente verificabili da tutti noi.





venerdì 22 luglio 2011

Toni Negri - "Moltitudine e singolarità nello sviluppo del pensiero politico di Spinoza” (3/3)

E qui, dunque, il rapporto tra singolarità e moltitudine è teleologico, ma si tratta di una teleologia che non ha nulla a che fare con la teologia. La finalità viene qui dal basso, è intrinseca alla praxis, e quindi al conflitto, cioè a un movimento etico del fare moltitudine.



La conclusione dell’etica spinoziana, in termini politici, non è ricostruzione dell’organico, ma costruzione continua, sempre aperta, sempre rischiosa del comune. “Il bene che ognuno che segue la virtù appetisce per sé lo desidererà anche per gli altri uomini e tanto più quanto maggiore sarà la conoscenza che avrà di Dio” – Eth, IV, 37. E ciò risulta tanto più chiaro quando si tiene presente Eth, IV, definizione 8: “Per virtù e potenza intendo la stessa cosa, cioè la virtù, in quanto si riferisce all’uomo, è la stessa essenza dell’uomo, ossia la sua natura in quanto ha la capacità di fare certe cose che possono essere comprese mediante le sole leggi della sua natura”.


Quando interviene la conoscenza di III genere, quando s’impone la scienza intuitiva, allora la sintesi di singolarità e moltitudine è completa (Eth, V, 35-36). Questa conoscenza intuitiva è interna alla praxis, costituisce comune (Eth, II, proposizione 40, scolio 2). Il processo e il movimento delle singolarità, dopo avere attraversato la condizione esistenziale, si producono nel comune. L’esistenza produce se stessa come comune, e produce il comune come moltitudine. Non ci sarebbe possibilità di mettere assieme la singolarità nella moltitudine, se la costruzione del comune non fosse un processo continuo e solidale.


Tutte le difficoltà che a questo sviluppo si oppongono sono determinazioni negative, assenza d’essere, insufficienze o cadute del processo costitutivo, cioè del processo del desiderio di libertà.


Il dispositivo teleologico scopre la sua condizione dal basso, si pone come tensione tra povertà e amore. La povertà dell’uomo che nasce misero e incapace di sopravvivere se la solidarietà di tutti gli altri uomini non lo sostiene nel farsi soggetto di socialità. Ma è solo l’amore che ci estrae da questa povertà, l’amore come forza ontologica, collettiva, che non ha nulla a che fare con l’idea che dell’amore si è fatto l’individualismo possessivo, oppure il misticismo religioso.


Mi siano qui permesse alcune annotazioni. In primo luogo, l’eminenza pratica del fare, e di un fare teleologicamente appuntato al comune. È articolato su un processo logico, il fare le idee comuni, (un fare) che è realistico e sperimentale. Si tratta di un passaggio necessario, praticamente articolato, dall’ontologia della singolarità a quella del molteplice. In secondo luogo, allora, a me sembra molto difficile opporre a questo cammino pratico della ragione delle riserve scettiche, quasi che la costituzione dell’essere comune potesse essere indifferente alla comunanza che l’amore determina nel generare la vita e nell’organizzarla politicamente.


Se il male o il fascismo sono in agguato nel rapporto che si spende tra l’essere e il fare moltitudine (il fascismo dell’animalità dell’uomo, oppure l’automatismo come formalismo astratto dell’obbedienza), se la nostra vita è continuamente costretta a confrontarsi con queste regressioni (d’altra parte lo stesso rapporto con la monarchia e con l’aristocrazia rivela regressione nel discorso sul comune spinoziano), bene, questo non potrà mettere in dubbio il movimento della moltitudine, né la sua tensione verso la libertà, a meno di non pensare che l’uomo, anziché la vita, desideri la morte, e di considerare la resistenza non un atto etico, ma suicida.


Torniamo ora alla critica che Nietzsche [qui l’audio è compromesso per qualche secondo] teleologia costituita dalla singolarità, e costitutiva della moltitudine, è impossibile. La simpatia di Nietzsche per Spinoza, tanto attiva quando si tratta di rivelare il materialismo spinoziano, altrettanto è chiaramente negativa quando si tratta di togliere al materialismo spinoziano l’elemento costitutivo, creativo. Non mi soffermerei su questo aspetto se non fosse che oggi vedo tornare in alcuni autori un’interpretazione mistica del naturalismo spinoziano, e quindi una sua implicita liquidazione. La rivoluzione che nell’interpretazione di Spinoza si era data intorno al ’68 sembra oggi bloccata da un revisionismo che, in questo ambito (come in troppi altri), ritorna a considerare Spinoza come un “ismo”. Quello che mi ha fatto sobbalzare è stato un articolo di Tom Nairn, eppure autore della New Left Review. Un articolo in cui egli svolgeva contro alcuni nostri amici un’accusa in cui faceva correre l’idea – molto nietzscheana – secondo la quale, quando si parla di Spinoza nel modo in cui noi ne abbiamo parlato, si accede a una redemption business, a un affare di salvazione, a un movimento salvazionista, un movimento spiritualista. Quel che mi spaventa non è tanto che siano degli spiritualisti a dire questo (attraverso un’analisi fondamentalmente rinnovata del pensiero spinoziano), ma quando dei materialisti come Ton Nairn e la New Left Review accedono a queste posizioni, ho l’impressione che costoro abbiano del materialismo una concezione solo ed esclusivamente triste, e della vita politica – essi stessi – un’idea fascista.


Grazie.

giovedì 21 luglio 2011

Toni Negri - "Moltitudine e singolarità nello sviluppo del pensiero politico di Spinoza" (2/3)

Vi sono due modi per la singolarità di essere nella moltitudine. Il primo è il suo esistere in quanto moltitudine. Come abbiamo visto, è il processo che ricompone le singolarità nella moltitudine secondo il principio di utilità (Eth, IV, appendice, capp. 26-27). Di nuovo, è nel rapporto tra singolarità che si stabilisce l’essere moltitudine. È questo il dato della nostra esistenza.
Ma il rapporto tra singolarità e moltitudine si dà, oltre che come tensione esistenziale, per così dire fenomenologica, anche come mutazione. La metamorfosi riguarda la singolarità, in quanto gli uomini non nascono atti e capaci di vita civile. Lo diventano (Eth, V, 39, scolio e TP, V, 2). Questa metamorfosi è costruttiva. Una gran parte del rapporto tra singolarità e moltitudine si gioca su questo spazio. Ma poiché questa moltitudine – data la sua consistenza esistenziale – trova limite, questo limite va superato dal suo interno. Per parlare più chiaramente, il singolo ha paura della solitudine (TP, VI, 1). Lo stato di natura è come aspirato in una situazione di paura e di solitudine.


Ma la paura della solitudine è qualcosa di più della semplice paura. Essa è desiderio di moltitudine, e cioè della sicurezza nella moltitudine e della assolutezza della moltitudine. Ma prima che questo desiderio riesca a esprimersi, le singolarità si trovano in una strana, per certi versi ambigua situazione fenomenologicamente determinata. Potrebbero costruire dentro il comune, eventualmente, una società senza Stato, una società pura, una società nuda. Porsi cioè dentro un rapporto di insicurezza o di conflittualità risolte nel contratto. Sappiamo infatti come nel TTP la soluzione contrattuale sia stata assunta da Spinoza. Essa corrispondeva alla dimensione fenomenologica del costituirsi della singolarità in moltitudine. Essa (la condizione contrattuale) è per così dire omologa a una società senza Stato, poiché essa è ancora sul terreno del semplice essere moltitudine.


Quando dico società senza Stato, evidentemente non alludo a ideali anarchici o a ideali di dissoluzione dello Stato. Parlo del concetto di Stato esattamente come poi verrà fuori in Spinoza, cioè come bene comune, come bene costruito. Essere fuori dallo Stato, essere in una società senza Stato significa esattamente essere in una situazione di animalità, essere in una situazione di automaticità, che nel TTP è appunto descritta.


Si diceva prima, dunque, che ci sono due modi di essere moltitudine.


Il primo è, come si è visto, la sua esistenza. È l’essere un rapporto di singolarità costitutivo della moltitudine, secondo il principio di utilità. Vi sono in questo processo tensioni e mutazioni; la faccia politica di questo essere moltitudine è la dimensione contrattuale, come abbiamo visto. E abbiamo anche voluto identificare questa situazione con un’illusoria società senza Stato, cioè senza la costruzione di un progetto comune di esistenza.


Il secondo modo di essere moltitudine sarà invece caratterizzato dentro la condizione umana, cioè dentro il rapporto tra singolarità e moltitudine, come un processo costitutivo. Il secondo modo di essere moltitudine è fare moltitudine. Si tratta di un processo materiale e collettivo, diretto dalle passioni comuni. La multitudo si presenta qui sempre più come constitutio multitudinis. Non si dà più possibilità di una società senza Stato, di una società animale, di una società automatica, perché la potenza della moltitudine definisce il diritto, quel diritto pubblico che è costume chiamare Stato. Perché lo abbiamo costruito. È qui che nasce la repubblica. Il diritto civile e la repubblica sono la potenza della multitudo. Perché li abbiamo fatti. E allora è qui che il consenso si sostituisce al contratto, e un metodo fondato sul rapporto comune delle singolarità si sostituisce a ogni possibile rapporto tra individualità isolate.


Si badi bene, in questo passaggio dal giusnaturalismo contrattualistico al materialismo etico si risolve anche il rapporto tra singolarità e moltitudine.


C'è simmetria tra l’essere moltitudine e il soggiacere alla dimensione contrattuale, o il fare moltitudine, e quindi costruire la realtà politica. Qui il potere si dà sulla base del fare. Ne viene questa concezione del potere come realtà duale, interrotta: così si rappresenta la repubblica. “Nessuno potrà mai trasferire la sua potenza, e di conseguenza il suo diritto al punto di cessare di essere un uomo; e non vi sarà mai un sovrano che possa esercitare il suo potere come lo vuole” – TTP, XVII. L’apologia della libertà è quindi democratica, fondata sulla tolleranza, ma contemporaneamente sulla realizzazione della libertà. Non si tratta qui semplicemente di riferirsi ai diritti naturali, ma di una certa idea del potere, di un potere che può essere solo democratico, che può essere solo un rapporto. Un potere che non può in nessun caso essere univoco.


Con l’eliminazione del contratto sociale, il rapporto tra soggetto e moltitudine diventa quindi centrale nel processo costitutivo dell’Etica e del TP. Il soggetto politico repubblicano è il cittadino moltitudinario, e non ci sarà più distinzione tra soggetto e cittadino. La sovranità e il potere sono ricondotti alla moltitudine, e si arresta laddove si arresta la potenza della multitudo organizzata (TP, III, 9). L’adagio tantum iuris quantum potentiae comincia qui a imporsi come chiave del fare moltitudine.


Forse non abbiamo ancora abbastanza sottolineato quale sia l’intensità ontologica di questo processo costituivo. In effetti essa è assoluta, non dà alternative. Certo, anche la multitudo ha dei vizi: “Quel che noi abbiamo detto della moltitudine farà forse ridere coloro che restringono alla sola plebe i vizi inerenti a tutti i mortali: la folla, si dice, non ha alcun senso della misura, essa è temibile a meno che non la si trattenga con il terrore, essa è servile quando non la si domini e arrogante quando essa domina, essa è estranea a o ogni verità e giudizio etc. Ma la natura è una e comune a tutti: essa è la stessa in tutti noi. Tutti gli uomini diventano arroganti quando esercitino qualche dominio” (TP, VII, 27).


Come si comprende, il discorso di Spinoza è qui particolarmente realistico. I vizi del potere moltitudinario sono d’altronde quelli di ogni potere quando la potenza della moltitudine sia, per qualche ragione, sottratta alla capacità costituente e al controllo costituente continuo. Ma se consideriamo il fare moltitudine come un processo strutturale, in cui le singolarità si stringono in una relazione che ha le caratteristiche dell’eternità e che implica una causalità divina, allora noi potremo limitare questi problemi, perché lo stringersi nella relazione comune è sviluppare singolarità, differenza e resistenza. È cercare l’amore, appunto, è sviluppare il conatus in cupiditas, e oltre.

(continua)

mercoledì 20 luglio 2011

Toni Negri - "Moltitudine e singolarità nello sviluppo del pensiero politico di Spinoza” (1/3)

Una piccola rarità. Posto qui (suddiviso in più parti) l’intervento tenuto da Antonio Negri nel 2005 a Bologna, durante un convegno sul pensiero politico di Baruch Spinoza. Poiché questo testo non coincide esattamente con quello pubblicato nel volume che raccoglie gli atti, ho pensato che potesse essere interessante metterlo in circolazione sulla rete (che io sappia non esistono altre copie in giro per il web, ma potrei anche sbagliarmi).


Faccio un paio di considerazioni preliminari. L’interpretazione negriana di Spinoza è stata variamente attaccata, soprattutto il saggio L’anomalia selvaggia, saggio su potere e potenza in Baruch Spinoza, scritto durante la carcerazione, si è attirato i giudizi severi di chi ne contestava la fondatezza filologica e teorica. Alcune critiche non sono ingiustificate, benché spesso corredate da tutta una serie di inconsistenti argumenta ad hominem, tra cui la solita idiota vulgata del “cattivo maestro” che tanto fa presa in questo provinciale paese del cazzo.
In ogni caso, ai detrattori che segnalano falsità e inesattezze nell’analisi di Negri, si può rispondere in un modo convincente – che qui esprimo anche sulla scorta della lettura di Michel Foucault –, e cioè che andrebbe inteso come reale e vero tutto ciò che produce effetti pubblici, pur nascendo o muovendo da un errore. Non ci sono dubbi, infatti, che L’anomalia selvaggia abbia dato inizio in Italia e altrove a tutta una serie di lavori e di riflessioni critiche straordinarie sull’originalità del pensiero politico spinoziano.
Per un materialista, d’altra parte, la verità non è qualcosa di originario, ma un esito, il prodotto postumo di un’azione trasformativa sulla realtà. La verità, cioè, implica sempre il punto di vista, la militanza.
In secondo luogo, mi preme sottolineare come la lettura dell’Etica spinoziana possa essere servita a un uomo (ancor prima che a un intellettuale) per resistere alle passioni tristi determinate dalla galera e dalla privazione della libertà. C’è qualcosa di grande in tutto questo, una lezione che ciascuno può trarre da sé, indipendentemente dalla simpatia o antipatia che può generare il personaggio Toni Negri.

La sbobinatura da audiocassetta mi ha preso un po’ di tempo, ma è il giusto prezzo che un fottuto dinosauro analogico – quale sono – deve pagare.

Nel caso foste interessati a pubblicarlo altrove, vi pregherei di citare Humachina tra le fonti.

Buona lettura!

Opere di Spinoza citate da Negri:
Etica, dimostrata secondo ordine geometrico – (Eth)
Trattato Politico – (TP)
Trattato Teologico-Politico – (TTP)

Ho cominciato a lavorare su Spinoza quasi trent’anni fa, e questo dà l’idea di quanto siamo diventati vecchi, in effetti. Spinoza è stato estremamente importante come ispirazione per tutti, ma soprattutto per costruire cose nuove.
Comunque: “Moltitudine e singolarità nello sviluppo del pensiero politico di Spinoza”, questo è il tema che mi è stato assegnato, o meglio che mi sono assegnato, e devo dire che me lo ero assegnato e adesso sarò abbastanza infedele in rapporto al titolo dell’argomento, e per una volta spero anche di essere molto poco politico in questo intervento che faccio… Poiché mi interessa oggi sottolineare piuttosto una certa idea dello spinozismo, che si era stabilita sul rapporto tra singolarità e moltitudine come proprio elemento centrale, e sulla quale ho l’impressione che ci siano degli spunti abbastanza critici nella più recente letteratura globale.


Per cominciare vorrei ricordare i diversi atteggiamenti che in Nietzsche sono presenti su Spinoza, e direi che mentre in una prima fase era il Nietzsche assolutamente aperto nei confronti di Spinoza che vinceva nel nostro spirito, adesso c’è invece l’altro Nietzsche, il Nietzsche negativo rispetto a Spinoza, che sta venendo fuori nei giudizi di tutta una certa letteratura. È soprattutto negli aforismi 349 e 372 de La gaia scienza e nell’aforisma 198 di Al di là del bene e del male che Nietzsche attacca Spinoza, e in particolare egli vede in Spinoza una certa teleologia che agisce sì secondo natura, ma sul filo dei dispositivi etici, e gli sembra che la stessa idea di conservazione della natura e il trasformarsi della natura in virtù – il tutto tendente verso l’amor intellectualis – contrasti con la distruzione della natura opera di se stessa.
La continuità di natura e storia è in questi aforismi rotta dalla volontà di potenza da un lato, e dall’altro lato da quello che è appunto questa pesante negativa riproposizione del concetto di natura. Teniamo presente questa posizione nietzscheana, vi ritorneremo alla fine delle analisi sul rapporto tra moltitudine e singolarità per capire come questa linea interpretativa possa essere usata negativamente nei confronti di una tradizione che ormai si è affermata (che è appunto quella positiva).


Dunque, singolarità e moltitudine. Definire la singolarità in Spinoza non è così facile. Ogni volta che si entra chez Spinoza sembra quasi di essere attratti in una voragine. Qualcuno ha chiamato presocratica la sensazione che dà la lettura dell’Etica. In ogni modo, una possibile pista per definire la singolarità è quella che discende da Eth, V, 24 (“Quanto più conosciamo le cose singolari, tanto più conosciamo Dio”) a Eth, I, 25, corollario (“Le cose particolari non sono altro che affezioni degli attributi di Dio, ossia modi con i quali gli attributi di Dio si esprimono in maniera certa e determinata”).


Di nuovo questo meccanismo che ci porta continuamente dalla V parte alle I parti… Era proprio questo che mi aveva fatto pensare a un certo punto, in un modo probabilmente molto scorretto (e però credo ancora di poterlo difendere sul terreno non tanto filologico, quanto logico), all’esistenza di un certo sostrato forte del pensiero spinozista, che soprattutto si affermava nella V parte e nella I, e che probabilmente costituiva uno strato diverso nel pensiero spinoziano (il quale non doveva essere considerato perciò in maniera continua, ma in maniera essa stessa“rotta”). Comunque devo dire che ogni volta che si prova a fissare un concetto ci si trova appunto dentro questo gioco. Comunque, questo è secondario.


Dicevo, per quanto riguarda la definizione di singolarità: da Eth, V, 29 proposizione e scolio – dove il rapporto tra la singolarità del corpo e l’attività della mente viene considerata nella prospettiva dell’eternità – si ridiscende nuovamente a Eth, II, 45, proposizione e scolio – dove l’essenza eterna e infinita di Dio viene concepita come sostanza di ogni cosa singolare esistente in atto. Ancora, Eth, I, 24 (“Dio non è soltanto causa perché le cose comincino a esistere, ma anche perché perseverino nell’esistere”). Come è noto, dunque, la singolarità non si esercita solo nella definizione ontologica delle cose, ma essa gioca anche nella definizione della conoscenza intuitiva, ossia di III genere (Eth, V, 36 scolio; Eth, II, 40, scolio 2).


La conoscenza intuitiva delle cose singolari è più potente della conoscenza universale di II genere. La singolarità si dà, per così dire, sia sul terreno ontologico sia su quello logico, sempre sotto qualche aspetto di eternità. È da questa intuitiva certezza di una singolarità piantata nell’eterno che nasce la consapevolezza che gli uomini siano la sola cosa singolare esistente in natura, della cui mente possiamo godere, e che possiamo a noi unire con qualche genere di rapporto (Eth, IV, Appendice, cap. 26).


Da quanto abbiamo detto, concludiamo dunque affermando che la singolarità è definita:


A – come non individualità, perché B – la singolarità è inserita in una sostanza comune, eterna. C – essa vive e si trasforma in un rapporto etico.


Se le cose stanno così, dunque, se la singolarità è dentro il comune (non in quanto insistente sull’individualità, ma in quanto dentro al comune) e si definisce nel rapporto, come potrà essere rappresentata se non nella moltitudine delle singolarità esistenti?

(continua)

Qui la seconda parte
Qui la terza e ultima parte

sabato 16 luglio 2011

IDOLA, FuORI! 4 - C'è grossa rimozione

Esordiamo con una banalità: il potere e la politica hanno bisogno di simboli. Simboli concreti e capaci di pulsare una storia. Con tutta evidenza, non appartiene al novero il sole delle Alpi leghista, utile al massimo ad aggrumare masse di ebefrenici avvinazzati una volta l’anno presso la loro personalissima Norimberga (analogia che auspico possa estendersi ulteriormente, fino a includere le estreme e doverose conseguenze).
Di certo, il crocefisso è il simbolo forte e identificativo di una Chiesa cattolica che, pur nella sua feroce lotta ideologica nei confronti dei processi di secolarizzazione (in ultima analisi definitivamente conclamatisi come processi di mondanizzazione borghese), ha mostrato di essere una potenza storica e politica in grado di imprimere una forma al mondo. E così, al pari del crocefisso, la falce e il martello insieme costituivano (costituiscono?) un’icona capace di incorporare l’idea di una finale e alternativa escatologia.
Si capisce come analfabeti padani e clero siano viscosamente attaccati al proprio armamentario d’immagini, anche solo per ragioni volgarmente opportunistiche. Li capisco, pur combattendoli. I leghisti li disprezzo; i cattolici li critico, ma ammiro i migliori tra loro, riconoscendo al cattolicesimo la statura di una tradizione culturale imponente. Del resto c’è reciprocità, se è vero che Ratzinger una volta disse di preferire il mondo prima del 1989.
Alla sinistra italiana le cose vanno a rovescio, non a caso proprio a cominciare dal dopo ’89. Da più di vent’anni è operativo un cantiere d’irremissibile demolizione culturale, di sciagurata rimozione dei simboli, dei concetti e della storia. E tutto senza una contropartita di alcun genere. Non è rimasto più nulla a questa sinistra se non il riferimento ossessivo e nevrotico a un nemico (?) individualizzato, dal quale poi ha mutuato tutto in termini di linguaggio e di comunicazione. Anche adesso, in piena crisi, si ripete a ciclo continuo il solito mantra: “Belusconi, Berlusconi, Berlusconi…”. Invece di provare a capirci qualcosa, di mettere sotto critica una politica fallimentare, imbelle, da morti in piedi, da partito di eletti (vecchie parole di Mussi…).
Un’identità evaporata, ma al PD preferiscono dire “Il vento sta cambiando”. Sì, come gli ectoplasmi, che niente hanno a che fare però con i celebrati spettri di altrettanto gloriosi manifesti. Va bene, cambiare è necessario, ma per diventare che cosa e a quale scopo? Forse per intercettare il voto dell’informe ceto medio? Veltroni (uscito peraltro vittorioso dalle primarie dell’epoca) ci provò, e ancora oggi ne porta le pene: dilacerazioni indelebili della sconfitta, non cicatrizzabili. Scommetto che gli fa ancora male. Spero. Sicuramente ceto medio e PD sono accomunati nella medesima privazione di forma, anzi coincidono e convergono in un unico magma spoliticizzato. Comunque, l’occasione che è all’origine di questo post è il piccolo affaire Vendola dell’altro giorno. Interessa poco sapere se davvero il leader di SEL abbia proposto di sostituire la parola “compagni” con la parola “amici”. Di fatto, nonostante la parziale ritrattazione, anche Nichi ha dimostrato di essere assoggettato a una concezione dilettantistica della politica. È possibile che “compagni” sia parola ormai incapace di identificare adeguatamente la parte politica più a sinistra, ma a tal proposito ancor meno rappresentativa risulta essere “amici”, non a caso termine predicabile di chiunque. Tutti possono essere amici di chicchessia, proprio perché “amico” è parola insufficiente a qualificare politicamente qualcuno.
Stesso discorso va fatto per l’espressione “Partito democratico”, perché potrebbe forse mai esistere oggi, dico a livello ufficiale, un “Partito anti-democratico”? Chiaro allora che quando ci si definisce democratici in senso onnicomprensivo s’intende alludere virtualmente a un partito di tutti, il che è una completa e populistica idiozia, peraltro in contraddizione logica con il significato stesso di “partito”. Evidentemente questa denuncia – in formule ancora più virulente – va ampliata anche ai banditi della destra, con i loro poli della libertà e degli onesti. Partiti erano il PCI e la DC, i quali per definizione indicavano modi speciali, irriducibili e particolari di intendere la democrazia. Visioni di parte, coerentemente chiamate a rappresentare interessi parziali, ma che trovavano comunque modo di misurarsi nella prospettiva di una risoluzione degli interessi generali del Paese. Invece adesso si va avanti così, alla festa del PD circolano i volantini con lo slogan: “La festa di tutti”. Ecumenismo d’accatto. Bravi.

lunedì 11 luglio 2011

Aufhalter


Negli operai che resistono a Pomigliano e altrove, in Italia e nel mondo, si riverbera ancora una scintilla, quella della vera politica moderna, il cui percorso si è snodato attraverso i secoli, da Machiavelli a Weber, e che per secoli ha significato capacità di egemonizzare i processi allo scopo di orientarli e dirigerli.
Secoli aggressivi e violenti. Secoli produttivi di dottrine e di pratiche, tempi in cui atto politico significava irruzione nella contingenza, evento decisivo in grado di innestarsi nella pretesa eterna sequenzialità storica per scardinarla, per farla deviare lungo il perseguimento di un progetto, di un’idea.
Orfani del soggetto moderno e delle finali escatologie comuniste, ancora potenti lungo la prima metà del Novecento, i lavoratori più consapevoli oggi sanno che la morte delle ideologie (esaltata da molti mentecatti giubilanti – intellettuali, giornalisti, cinici idioti e via degradando – sin dal dopo ’89-’91) è solo una colossale mistificazione. E in opposizione al capitale attualmente monologante l’operaio sviluppa una forza frenante, rallentante, katechonica, cifra stessa di un carattere anche intrinsecamente tragico della grande politica.
A questo si deve guardare per ricostruire il futuro soggetto. Sarà forse il lavoro precario a recuperare il testimone delle grandi lotte del movimento operaio? Sono le moltitudini di cui scrive Negri sulla scorta della lettura antagonista di Spinoza? Per ora il precariato è in sé e non per sé, si potrebbe rispondere. Mentre a proposito della capacità delle moltitudini di auto organizzarsi in potenza politica anticapitalistica – “identica alla vita” – si possono avanzare sensate obiezioni di leniniana memoria.


Che cosa diavolo ha a che fare con tutto questo la sinistra istituzionale/parlamentare italiana?
Ricostruiamone il cammino storico più recente per descrivere la sua condizione e denunciarne lo stato: dal compromesso storico, alla linea legalista e repressiva del ’77 (culminata nell’inchiesta 7 aprile 1979, per opera del giudice Calogero di area PCI), dalla rinuncia a una politica di egemonia culturale durante gli insopportabili anni ‘80 (giusto per dichiararsi realmente neo-liberali e fintamente “riformisti”) allo sfruttamento cinico del giustizialismo degli anni novanta per sopravanzare le destre, dalla corriva gestione tecnico-burocratico-amministrativa del potere, secondo i più ignavi modelli della prima repubblica, alle plurime sconfitte elettorali dell’ultimo decennio 2001-2011. E tutto ciò non è servito da lezione.
Sbagliano di grosso coloro che si attendono dal tramonto di Berlusconi l’inizio di una nuova era, abbagliati magari dalle recenti mobilitazioni piazzaiole e referendarie (ci si inchiavardi in testa una buona volta che politica è mediazione tra istituzione e società civile; la società che pretende di autorappresentarsi politicamente è vittima del populismo e della propria ingenuità). Non ci sarà alcun regno millenario di Cristo (questa attesa è casomai una deprimente parodia grottesca dell’eschaton che non c’è), e la stessa questione morale propagandata dai più non è che una toppa inconsistente chiamata a ricucirsi sul vuoto abissale lasciato dalla politica. Che cosa fare allora? Individuare il punto di ripartenza, e installarsi in esso, forti di una visione solida e priva di ambiguità. Il lavoro deve tornare a essere la questione decisiva e fondamentale di un’azione politica di sinistra.



giovedì 7 luglio 2011

IDOLA, FuORI! 3 - Lettera aperta ai commissari dell'Agcom

Egregi e stimati commissari, da utente attivo della rete scrivo questa mia, confidando nell’acume e nell’intelligenza che da sempre Vi contraddistinguono.
Le pretese dell’Agcom di salvaguardare il diritto d’autore sul web sono illegittime, per la semplice ragione che l’autore non esiste. Per comprenderlo è sufficiente disertare da Cronos (e dall’azione) a favore dell’Aion (e dell’atto). L’Aion suddivide all’infinito ciò che lo frequenta senza mai riempirlo o abitarlo (come “Io”). Vivere nell’atto significa allora disattendere le premesse e i progetti costitutivi di un’identità coscienziale. In realtà è l’esito a fondare l’intento e non viceversa, dunque si arriva sempre a fatto compiuto; ne consegue che è impossibile dichiararsi autori di qualcosa. Questa esautorazione dell’autorialità/autorità mirabilmente accade nella macchina attoriale C.B. e nel gesto Lorenzaccio che sconfessa l’azione. A fatto avvenuto, poi, un “Io” padronale (la presunzione dell’azione, del soggetto) si arrogherà la causalità dell’evento, portando a compimento la materializzazione di quell’allucinazione solitamente nota come causa finale, sulla quale – Spinoza insegna – si fonda l’illusione del libero arbitrio. L’azione, da cui scaturisce l’imbecille equivoco dell’autore, non è quindi che stupida contemplazione postuma dell’atto.
Convinto che la cogenza di questo discorso abbia trovato accoglienza presso le Vostre menti illuminate, Vi saluto distintamente.

MM

mercoledì 6 luglio 2011

IDOLA, FuORI! 2 - Contro il dialogo

Poiché esso non è altro che oggettivazione delle idee in valore di scambio. Le idee si impongono, si difendono e si combattono quando si ha la forza per farlo, non si scambiano né si rispettano. Questa è la politica. Affermazione “scandalosa”, poiché estranea per costituzione all’attuale classe dominante borghese, clasa discutidora secondo Donoso Cortés, classe non a caso impolitica, che discute, che dialoga incessantemente, ma che non lotta e non decide.
Il “politico” indica una dimensione conflittuale e antagonista, espunta la quale tutto si degrada a mero rapporto economico, in cui, com’è noto, non si danno raggruppamenti amico-nemico (Schmitt), ma solo relazioni di scambio, concorrenze tra soggetti individualizzati. Ecco perché le dottrine liberali non sono mai state capaci di proporre una forte teoria positiva dello Stato.
Lo Stato liberaldemocratico è appunto uno Stato neutrale e agnostico, l’anonimo amministratore dell’individualismo possessivo di tipica matrice borghese. La classica finzione a copertura ideologica dell’egemonia capitalistica mondiale.
Teoria e pratica della democrazia, nella modernità, hanno indicato tradizioni di pensiero politico forte, ma nel contesto contemporaneo, segnato dalla debolezza – cioè dalla fine delle "grandi narrazioni ideali" –, la democrazia diventa governance democratica, cioè una struttura di dominio pervadente, tendenzialmente automatica e portata a soffocare le espressioni di un qualsivoglia soggetto politico (a questo in Italia ha contribuito poi l'idea preconcetta, coltivata nel biennio '92-'94, secondo la quale la corruzione sarebbe stata intrinseca alla stessa forma partito. Di qui, l'avvio a un processo insensato di destrutturazione, subalterno al convincimento che per governare sarebbe bastata una legge elettorale maggioritaria, cioè fondamentalmente antipartitica, poiché in grado di costringere i soggetti all’interno di grandi coalizioni).
Le democrazie formali contemporanee – costituendosi in forme egemoniche a carattere inclusivo – risultano quindi perfettamente congeniali al rapporto di capitale, poiché in nome di un astratto egualitarismo assorbono, integrano e omologano il sociale, riflettendo politicamente lo stesso livellamento materialmente determinato dalle economie di mercato.
È significativo verificare come due intellettuali completamente divergenti come Kelsen e Schmitt sul finire degli anni Venti del Novecento convergano – come ricordava Mario Tronti – nel disvelamento dell’“enigma democratico”. Kelsen scrive: La discordanza tra la volontà dell’individuo, punto di partenza delle esigenze di libertà, e l’ordine statale – che si presenta all’individuo come una volontà estranea – è inevitabile. La protesta contro il dominio esercitato da uno che è simile a noi porta nella coscienza politica a uno spostamento del soggetto del dominio, che è inevitabile anche in regime democratico, vale a dire porta alla formazione della persona anonima dello Stato. L’imperium parte da questa persona anonima, non dall’individuo come tale. Le volontà delle singole personalità liberano una misteriosa volontà collettiva e una persona collettiva addirittura mistica. Analogamente Schmitt: La democrazia è una forma di Stato che corrisponde al principio di identità. È l’identità dei dominanti e dei dominati, dei governanti e dei governati, di quelli che comandano e di quelli che ubbidiscono, e la parola identità è utile nella definizione della democrazia perché indica la completa identità del popolo omogeneo, esistente con se stesso in quanto unità politica, senza più bisogno di nessuna rappresentanza, poiché si autorappresenta. La democrazia diventa nozione così ideale, è tutto ciò che è ideale, bello e simpatico… È uno di quei complessi pericolosi di idee in cui non si riescono più a riconoscere i concetti.
Concetti fortemente distintivi come quelli di destra e di sinistra, per esempio, sono smarriti.

In Italia, paese in cui più che altrove politica e società civile si ricalcano su se stesse, abbiamo assistito a un’autentica catastrofe categoriale. È ancora Mario Tronti a esprimere importanti considerazioni: La politica è lotta attraverso la mediazione. Un’arte raffinatissima: che richiede un’alta professionalità, che solo i grandi politici sanno esprimere. L’idea che la politica è di tutti, e alla portata di tutti, è una menzogna che hanno messo in giro i potenti per ingannare i deboli. Il populismo è anche questo: l’illusione che l’azione del capo sia l’azione del popolo. Il cittadino sovrano che viene chiamato non più ad eleggere attraverso un partito chi deve rappresentare la sua parte, ma direttamente a designare chi deve governare il paese, è il più recente imbroglio democraticistico, che solo intellettuali politicamente ritardati, e politici potenzialmente suicidi, potevano scambiare per un progresso dell’umanità verso il meglio. È la società civile che pretende di autorappresentarsi politicamente.
Tutto è sfumato in una poltiglia in cui scontri e fratture sono impediti, dal momento che non esistono più posizioni chiare, solide e riconoscibili (la sinistra ha sviluppato la propria identità storica mettendo al centro il lavoro, ma oggi il PD si pone eccentrico rispetto a questo tema, collocandolo alla pari di altre questioni, magari importanti, ma non sufficienti, non decisive). Tutto l’opportunismo di Berlusconi sta qui: nel '94, indebolitasi la capacità operativa dei partiti, ha capito che un'azione diretta, plebiscitaria, fondata sul rapporto diretto capo-elettorato, avrebbe avuto successo. Né si può probabilmente credere che l’opposizione in Italia abbia imparato qualcosa in questi ultimi venti anni, considerando la sua acritica glorificazione dello strumento delle primarie, nient’altro che un incentivo all’attuale personalizzazione della politica. Ricorrervi significa ancora una volta eludere la mediazione e favorire il passaggio a un rapporto istantaneo tra leader e popolo, con esiti nuovamente direttisti (specialmente in questo paese, la cui popolazione ha più volte dimostrato una pericolosa inclinazione all’identificazione con il “corpo mistico” del capo).
Le spontanee manifestazioni di aperto dissenso al sultano di Arcore non fanno purtroppo eccezione in questo panorama. I movimenti sono attraversati da un forte quanto sciagurato spirito antipolitico, profondamente ostile a ogni azione partitica. In questa massa confusa e grossolana di arrabbiati antiberlusconiani (popolo viola, senonoraquando, grillini etc.) non si riesce a riconoscere, come diceva Schmitt, uno straccio di concetto o di idea o di programma. È una vasta zona grigia di mucillagini spoliticizzate.
Qui giova ricordare quanto scriveva un politico di razza, Richelieu: Io riconobbi la debolezza implicita in tutti i partiti che siano composti di gente diversa, cui non lega altro interesse che un comune desiderio di insurrezione e di cambiamento; e capii come coloro che lottano contro il potere dello Stato vengano in realtà vinti dalla loro stessa immaginazione [...].
Partendo da una rinnovata consapevolezza, c’è un enorme lavoro da fare.

(Il testo integra altri miei interventi precedentemente pubblicati in rete)