Negli operai che resistono a Pomigliano e altrove, in Italia e nel mondo, si riverbera ancora una scintilla, quella della vera politica moderna, il cui percorso si è snodato attraverso i secoli, da Machiavelli a Weber, e che per secoli ha significato capacità di egemonizzare i processi allo scopo di orientarli e dirigerli.
Secoli aggressivi e violenti. Secoli produttivi di dottrine e di pratiche, tempi in cui atto politico significava irruzione nella contingenza, evento decisivo in grado di innestarsi nella pretesa eterna sequenzialità storica per scardinarla, per farla deviare lungo il perseguimento di un progetto, di un’idea.
Orfani del soggetto moderno e delle finali escatologie comuniste, ancora potenti lungo la prima metà del Novecento, i lavoratori più consapevoli oggi sanno che la morte delle ideologie (esaltata da molti mentecatti giubilanti – intellettuali, giornalisti, cinici idioti e via degradando – sin dal dopo ’89-’91) è solo una colossale mistificazione. E in opposizione al capitale attualmente monologante l’operaio sviluppa una forza frenante, rallentante, katechonica, cifra stessa di un carattere anche intrinsecamente tragico della grande politica.
A questo si deve guardare per ricostruire il futuro soggetto. Sarà forse il lavoro precario a recuperare il testimone delle grandi lotte del movimento operaio? Sono le moltitudini di cui scrive Negri sulla scorta della lettura antagonista di Spinoza? Per ora il precariato è in sé e non per sé, si potrebbe rispondere. Mentre a proposito della capacità delle moltitudini di auto organizzarsi in potenza politica anticapitalistica – “identica alla vita” – si possono avanzare sensate obiezioni di leniniana memoria.
Che cosa diavolo ha a che fare con tutto questo la sinistra istituzionale/parlamentare italiana?
Ricostruiamone il cammino storico più recente per descrivere la sua condizione e denunciarne lo stato: dal compromesso storico, alla linea legalista e repressiva del ’77 (culminata nell’inchiesta 7 aprile 1979, per opera del giudice Calogero di area PCI), dalla rinuncia a una politica di egemonia culturale durante gli insopportabili anni ‘80 (giusto per dichiararsi realmente neo-liberali e fintamente “riformisti”) allo sfruttamento cinico del giustizialismo degli anni novanta per sopravanzare le destre, dalla corriva gestione tecnico-burocratico-amministrativa del potere, secondo i più ignavi modelli della prima repubblica, alle plurime sconfitte elettorali dell’ultimo decennio 2001-2011. E tutto ciò non è servito da lezione.
Sbagliano di grosso coloro che si attendono dal tramonto di Berlusconi l’inizio di una nuova era, abbagliati magari dalle recenti mobilitazioni piazzaiole e referendarie (ci si inchiavardi in testa una buona volta che politica è mediazione tra istituzione e società civile; la società che pretende di autorappresentarsi politicamente è vittima del populismo e della propria ingenuità). Non ci sarà alcun regno millenario di Cristo (questa attesa è casomai una deprimente parodia grottesca dell’eschaton che non c’è), e la stessa questione morale propagandata dai più non è che una toppa inconsistente chiamata a ricucirsi sul vuoto abissale lasciato dalla politica. Che cosa fare allora? Individuare il punto di ripartenza, e installarsi in esso, forti di una visione solida e priva di ambiguità. Il lavoro deve tornare a essere la questione decisiva e fondamentale di un’azione politica di sinistra.
Bello. Sintetico, sagace e propositivo.
RispondiEliminaIl lavoro come punto di ripartenza? A me sembra una cosa ovvia.
Ma quando vedo la Camusso, ad esempio, l'istinto di chiedere il prezzo di un UZI è ancora difficile da sopprimere. Siamo indietro, purtroppo e ancora. Se stiamo ad aspettare i liderz, comunque, finiscono di fotterci.
Infatti. Il lavoro al centro (a riguardo c'è anche bisogno di nuova teoria, per pensare le radicali trasformazioni avvenute negli ultimi 40 anni), ma anche le idee e i programmi. I leader, specie se si chiamano Camusso, o Renzi, o Veltroni etc. invece ai margini!
RispondiEliminaNon è ora di un libro bianco, documentato, sulla necessità di una riforma del sistema del lavoro?
RispondiEliminaUn libro appassionato, visionario e insieme inappuntabile nella rappresentazione di un sistema che sappia davvero orientare lo sviluppo della tecnologia alla felicità privata. Che discuta la necessità delle file ballonzolanti in fabbrica, dei sistema del debito pubblico e privato, dell'inurbamento ossessivo (che un tempo forse favoriva anche l'industria e il terziario, oggi solo l'edilizia e la confcommercio).
Il tessuto delle nostre metropoli e la faccia della gente che le popola sono gli stessi dei quadri di Grosz. Vuol dire che, da allora, non s'è fatto granché.
(I leader non è che sono stronzi: è che hanno la macchina da scrivere, il toscanello e migliaia di clientes che glieli procurano).
Certo. Purché si sappia che il significato della parola “lavoro” si presta a plurime interpretazioni, tutte implicanti una particolare presa di posizione politica, il che lo rende un termine vago. Per esempio, non so bene quanto la nozione di lavoro che ricorre nel nostro testo costituzionale sia sovrapponibile a quella propria delle odierne teorie scientifiche ed economiche. Di certo Berlusconi e Sacconi coltivano delle personalissime idee a riguardo. Alla fine dipende tutto dall’originaria scelta di valore fatta dal soggetto, con relative conseguenze pratiche, tra cui la redazione di un libro bianco.
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