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mercoledì 6 luglio 2011

IDOLA, FuORI! 2 - Contro il dialogo

Poiché esso non è altro che oggettivazione delle idee in valore di scambio. Le idee si impongono, si difendono e si combattono quando si ha la forza per farlo, non si scambiano né si rispettano. Questa è la politica. Affermazione “scandalosa”, poiché estranea per costituzione all’attuale classe dominante borghese, clasa discutidora secondo Donoso Cortés, classe non a caso impolitica, che discute, che dialoga incessantemente, ma che non lotta e non decide.
Il “politico” indica una dimensione conflittuale e antagonista, espunta la quale tutto si degrada a mero rapporto economico, in cui, com’è noto, non si danno raggruppamenti amico-nemico (Schmitt), ma solo relazioni di scambio, concorrenze tra soggetti individualizzati. Ecco perché le dottrine liberali non sono mai state capaci di proporre una forte teoria positiva dello Stato.
Lo Stato liberaldemocratico è appunto uno Stato neutrale e agnostico, l’anonimo amministratore dell’individualismo possessivo di tipica matrice borghese. La classica finzione a copertura ideologica dell’egemonia capitalistica mondiale.
Teoria e pratica della democrazia, nella modernità, hanno indicato tradizioni di pensiero politico forte, ma nel contesto contemporaneo, segnato dalla debolezza – cioè dalla fine delle "grandi narrazioni ideali" –, la democrazia diventa governance democratica, cioè una struttura di dominio pervadente, tendenzialmente automatica e portata a soffocare le espressioni di un qualsivoglia soggetto politico (a questo in Italia ha contribuito poi l'idea preconcetta, coltivata nel biennio '92-'94, secondo la quale la corruzione sarebbe stata intrinseca alla stessa forma partito. Di qui, l'avvio a un processo insensato di destrutturazione, subalterno al convincimento che per governare sarebbe bastata una legge elettorale maggioritaria, cioè fondamentalmente antipartitica, poiché in grado di costringere i soggetti all’interno di grandi coalizioni).
Le democrazie formali contemporanee – costituendosi in forme egemoniche a carattere inclusivo – risultano quindi perfettamente congeniali al rapporto di capitale, poiché in nome di un astratto egualitarismo assorbono, integrano e omologano il sociale, riflettendo politicamente lo stesso livellamento materialmente determinato dalle economie di mercato.
È significativo verificare come due intellettuali completamente divergenti come Kelsen e Schmitt sul finire degli anni Venti del Novecento convergano – come ricordava Mario Tronti – nel disvelamento dell’“enigma democratico”. Kelsen scrive: La discordanza tra la volontà dell’individuo, punto di partenza delle esigenze di libertà, e l’ordine statale – che si presenta all’individuo come una volontà estranea – è inevitabile. La protesta contro il dominio esercitato da uno che è simile a noi porta nella coscienza politica a uno spostamento del soggetto del dominio, che è inevitabile anche in regime democratico, vale a dire porta alla formazione della persona anonima dello Stato. L’imperium parte da questa persona anonima, non dall’individuo come tale. Le volontà delle singole personalità liberano una misteriosa volontà collettiva e una persona collettiva addirittura mistica. Analogamente Schmitt: La democrazia è una forma di Stato che corrisponde al principio di identità. È l’identità dei dominanti e dei dominati, dei governanti e dei governati, di quelli che comandano e di quelli che ubbidiscono, e la parola identità è utile nella definizione della democrazia perché indica la completa identità del popolo omogeneo, esistente con se stesso in quanto unità politica, senza più bisogno di nessuna rappresentanza, poiché si autorappresenta. La democrazia diventa nozione così ideale, è tutto ciò che è ideale, bello e simpatico… È uno di quei complessi pericolosi di idee in cui non si riescono più a riconoscere i concetti.
Concetti fortemente distintivi come quelli di destra e di sinistra, per esempio, sono smarriti.

In Italia, paese in cui più che altrove politica e società civile si ricalcano su se stesse, abbiamo assistito a un’autentica catastrofe categoriale. È ancora Mario Tronti a esprimere importanti considerazioni: La politica è lotta attraverso la mediazione. Un’arte raffinatissima: che richiede un’alta professionalità, che solo i grandi politici sanno esprimere. L’idea che la politica è di tutti, e alla portata di tutti, è una menzogna che hanno messo in giro i potenti per ingannare i deboli. Il populismo è anche questo: l’illusione che l’azione del capo sia l’azione del popolo. Il cittadino sovrano che viene chiamato non più ad eleggere attraverso un partito chi deve rappresentare la sua parte, ma direttamente a designare chi deve governare il paese, è il più recente imbroglio democraticistico, che solo intellettuali politicamente ritardati, e politici potenzialmente suicidi, potevano scambiare per un progresso dell’umanità verso il meglio. È la società civile che pretende di autorappresentarsi politicamente.
Tutto è sfumato in una poltiglia in cui scontri e fratture sono impediti, dal momento che non esistono più posizioni chiare, solide e riconoscibili (la sinistra ha sviluppato la propria identità storica mettendo al centro il lavoro, ma oggi il PD si pone eccentrico rispetto a questo tema, collocandolo alla pari di altre questioni, magari importanti, ma non sufficienti, non decisive). Tutto l’opportunismo di Berlusconi sta qui: nel '94, indebolitasi la capacità operativa dei partiti, ha capito che un'azione diretta, plebiscitaria, fondata sul rapporto diretto capo-elettorato, avrebbe avuto successo. Né si può probabilmente credere che l’opposizione in Italia abbia imparato qualcosa in questi ultimi venti anni, considerando la sua acritica glorificazione dello strumento delle primarie, nient’altro che un incentivo all’attuale personalizzazione della politica. Ricorrervi significa ancora una volta eludere la mediazione e favorire il passaggio a un rapporto istantaneo tra leader e popolo, con esiti nuovamente direttisti (specialmente in questo paese, la cui popolazione ha più volte dimostrato una pericolosa inclinazione all’identificazione con il “corpo mistico” del capo).
Le spontanee manifestazioni di aperto dissenso al sultano di Arcore non fanno purtroppo eccezione in questo panorama. I movimenti sono attraversati da un forte quanto sciagurato spirito antipolitico, profondamente ostile a ogni azione partitica. In questa massa confusa e grossolana di arrabbiati antiberlusconiani (popolo viola, senonoraquando, grillini etc.) non si riesce a riconoscere, come diceva Schmitt, uno straccio di concetto o di idea o di programma. È una vasta zona grigia di mucillagini spoliticizzate.
Qui giova ricordare quanto scriveva un politico di razza, Richelieu: Io riconobbi la debolezza implicita in tutti i partiti che siano composti di gente diversa, cui non lega altro interesse che un comune desiderio di insurrezione e di cambiamento; e capii come coloro che lottano contro il potere dello Stato vengano in realtà vinti dalla loro stessa immaginazione [...].
Partendo da una rinnovata consapevolezza, c’è un enorme lavoro da fare.

(Il testo integra altri miei interventi precedentemente pubblicati in rete)

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