Affrontare sensatamente un discorso sulla violenza non è semplice, perché essa individua una nozione complessa – e amorfa, come ricorda Pier Paolo Portinaro –, in variazione di significato in rapporto al piano ideologico sul quale ci si colloca, e che per essere compresa ha bisogno peraltro di qualificarsi attraverso aggettivi (diretta, indiretta, legittima, illegittima, mitica, divina etc.).
Alla mancata precisazione di questi dettagli essenziali va attribuita la ragione di un cospicuo quantitativo di fraintendimenti che sono soliti affliggere anche gli interlocutori maggiormente disponibili al confronto.
Resto dunque convinto della necessità di esaminare alcune questioni gravitanti attorno al tema, anche allo scopo pratico di salvaguardare se stessi da tutta una serie di argomentazioni confuse e scorrette, propalate senza remore e decoro dai soliti soggetti interessati: non solo Stato e suoi apparati, ministri, presidenti del consiglio, della Repubblica, ma anche certi gruppi e movimenti pacifisti, fin troppo inclini alle facili dossologie e al giudizio della “pappa del cuore”.
Invece, gli oligofrenici fascio-leghisti che bombarderebbero ogni cosa – animata o inanimata che sia – non li prendo nemmeno in considerazione, la loro stupidità è irredimibile, e coerentemente con il loro modo di agire andrebbero solo impiccati.
Inoltre sono persuaso che analizzare la violenza sotto un profilo per così dire “neutrale” costituisca già di per sé una mistificazione, perché – come scrivevo in qualche post precedente – la verità in politica implica sempre un punto di vista, una parzialità alla quale non intendo nemmeno ora sottrarmi, e che per ragioni pratiche e teoriche mi conduce a ritenere l’azione violenta, sotto certe condizioni, uno strumento ineludibile di emancipazione.
Ora, poiché nel mondo non v’è se non vulgo, esasperato dall’esposizione agli idola propagandati da televisione e giornali, ho fatto l’unica cosa sensata che conosco (poco ma buono, come si dice).
Sono tornato in un certo senso al principio, cioè a rileggermi quanto scrive Walter Benjamin nel suo Per la critica della violenza, insieme ad altra saggistica. Quanto segue, dunque, è soprattutto una demistificazione attuata alla luce del concetto, oltre che un’operazione – condotta su me stesso – di pulizia mentale, poiché non mi sogno minimamente di credere di essere un miracolato immune da pregiudizi.
Chiaramente, prendendo in esame solo alcuni elementi, quello che scrivo non può essere considerato in nessun caso esaustivo. Questo è un blog, e il qui presente testo non pretende di sostituire lo studio diretto della letteratura qualificata sull’argomento.
Per individuare – a scopi politicamente emancipativi – alcune problematicità intrinseche al potere e al diritto, si tratta in primo luogo di mostrare la loro organicità alla violenza. Non è vero, infatti – come vorrebbe certo senso comune –, che violenza e diritto si elidano a vicenda, al contrario, essi si coappartengono intimamente. Quando parlo di potere violento non intendo quindi alludere a quel giudizio di immediata deprecazione morale che qualifica gran parte dei nostri discorsi quotidiani, bensì a un rapporto di necessità essenziale che ci porta a riconoscere correttamente la violenza come la forma di potere più originaria (di vita e di morte), così come essa caratteristicamente appare – per esempio – nella minaccia, nell’intimidazione e nella sottomissione.
Se teniamo poi conto che l’uomo diventa tale nella politica, ovvero in una dimensione della coesistenza umana concepita come produttiva di organizzazione e di stabili rapporti di potere, comprendiamo bene come chiamarsi fuori dalla violenza sia possibile solo a patto di concepirla in un’accezione estremamente povera e ristretta.
La violenza, giuridicamente sancita come potere, è violenza storicamente riconosciuta. Per questa ragione – se si vuole capire che cosa essa sia in quanto principio, senza perdersi in una casistica relativa alle sue applicazioni –, non la si può ricondurre semplicemente a mezzo estrinseco del potere, e nemmeno identificarla con una specie di materia prima che, facendosi strumento, possa servire al perseguimento di giusti fini naturali, com’è solito ritenere il giusnaturalismo, un’infestante vulgata darwiniana e – via via degradando a livelli infimi – i pappagalli subalterni alla tiritera del “fine che giustifica i mezzi”.
Il diritto positivo ci fornisce invece un valido punto di partenza, poiché richiede al potere – affinché esso stesso possa presentarsi come legittimo – di esibire la patente della propria origine storica. Tale sanzione si dà tipicamente nel fenomeno di sottomissione passiva a un ordine dei fini, che possono essere suddivisi in naturali (se privi di riconoscimento giuridico) o giuridici (dotati di riconoscimento).
Ora, se “tutti i fini naturali di persone singole entrano necessariamente in conflitto coi fini giuridici quando vengono perseguiti con violenza più o meno grande”, ne consegue che “il diritto considera la violenza nelle mani della persona singola come un rischio o una minaccia per l’ordinamento giuridico”.
Ecco allora che si palesa come la violenza sia il fenomeno in cui risplende tanto la forza quanto la debolezza del potere, il quale – per salvaguardare il diritto stesso – spoglia l’individuo della possibilità di realizzare i propri fini naturali perseguibili attraverso azioni violente, riservando esclusivamente a sé l’uso della forza a scopi giuridici. Perché è la violenza stessa, non il fine ottenibile mediante un suo uso strumentale, a minacciare al di fuori del diritto il sistema giuridico.
Il carattere terrificante di questa funzione si manifesta nella contraddizione oggettiva che si determina in coincidenza con lo sciopero ufficialmente garantito, poiché se da un lato lo Stato concede (non potendo più fare altrimenti per impedire la violenza) il diritto intendendolo solo come sospensione delle attività lavorative, dall’altro la classe operaia organizzata sviluppa questa azione secondo una concezione propria, una verità di parte, intendendola non come semplice omissione, ma come legittimo atto violento di modificazione dei rapporti di lavoro e di proprietà correnti, cosa ritenuta illecita da parte dello stesso ordinamento giuridico esistente che garantisce lo sciopero.
Il timore della violenza – a cui si riconduce il riconoscimento del diritto all’interruzione del lavoro – è indice di fragilità e di decadimento del potere, come si può altresì verificare prendendo in esame un altro fenomeno sociale, quello dell’inganno.
La menzogna inerisce a una particolare tecnica – la conversazione –, il cui carattere di mezzo puro, scevro da coercizione violenta, si mostra proprio nell’impunibilità della dichiarazione mendace stessa. La punizione della menzogna non è infatti contemplata da alcun genere di ordinamento, fino a quando la struttura giuridica si sente sufficientemente forte e vittoriosa, cioè al riparo dalle conseguenze dell’inganno. Solo successivamente, come segno di un evidente processo di decadenza e di indebolimento, il diritto provvederà a saturare con la violenza della pena anche la sfera dei mezzi puri – riducendone drammaticamente la portata –, per il timore della reazione aggressiva che la menzogna potrebbe innescare nell’ingannato.
Esistono dunque azioni violente perfettamente legittime, come abbiamo visto nel caso dello sciopero, che costituiscono la base materiale di una modificazione o dell’instaurazione di un possibile nuovo ordine reale, concreto e pacifico, non inteso cioè come mera acquiescenza e obbedienza allo stato di cose presente. Il diritto stesso prima della sua formalizzazione giuridica è peraltro petition, claim, pretesa, cioè conflitto, come dovrebbero ben ricordare gli inglesi e tutti i parlamenti, dal momento che devono la loro origine a un atto inaugurale di violenza creatrice di diritto. Anzi – come scrive Benjamin –, lo smarrimento graduale di questa cognizione è alla base della decadenza di simili istituti giuridici, come oggi appare chiaro persino al più distratto tra noi.
In un senso più ampio, del resto – secondo Carl Schmitt –, appartiene alla storia della modernità, alla sua dialettica immanente, la progressiva perdita di consapevolezza della sua struttura autentica, di quella doppia coimplicazione originaria di contingenza e di necessità (vale a dire il “politico”), da cui scaturisce la ragione (mediazione) politica moderna.
Dunque, la stretta relazione con la dimensione del potere fa riflettere sul fatto che la violenza possa assumere non solo funzioni disgregatrici (a cui generalmente si arresta la comprensione del senso comune), ma anche fondatrici e conservatrici di diritto, alle quali essa non può sottrarsi senza con ciò perdere completamente la propria validità.
A un certo tipo di violenza “dal basso”, che connota in un certo senso la stessa democrazia come azione carsica di modellamento delle diverse forme di governo, si oppone dall’alto – laddove il potere si sia istituzionalizzato in strutture più o meno complesse – la violenza degli apparati repressivi, del terrore, della pena di morte inflitta dallo Stato.
Proprio nella pena capitale rifulge il carattere archetipico del potere come potere di vita e di morte. Dunque, criticarla adeguatamente non significa contestare la determinatezza di una legge particolare, ma il diritto stesso nella sua origine e nel suo perpetuarsi come destino. È infatti nel disporre della vita e della morte che il potere si manifesta più intensamente che in ogni altro atto giuridico, e come carattere atavico esso persiste durevolmente presso gli ordinamenti politico-sociali più evoluti.
Infine, a proposito della repressione, l’analisi della violenza della polizia permette di chiarire ulteriormente il nesso con le funzioni creatrici e conservatrici di diritto, fornendoci l’opportunità di individuare altri elementi di debolezza nella sfera del potere. La polizia dispone, in una mescolanza “spettrale”, tanto di una violenza che pone quanto di una violenza conservatrice diritto, la quale si esprime nella forma della minaccia.
Così Benjamin: L’affermazione che gli scopi del potere di polizia siano sempre identici o anche solo connessi a quelli del rimanente diritto, è profondamente falsa. Anzi, il diritto della polizia segna proprio il punto in cui lo Stato, vuoi per impotenza, vuoi per le connessioni immanenti di ogni ordinamento giuridico, non è più in grado di garantirsi – con l’ordinamento giuridico – gli scopi empirici che intende raggiungere a ogni costo.
Perciò la polizia interviene “per ragioni di sicurezza” in casi innumerevoli in cui non sussiste una chiara situazione giuridica.
È soprattutto presso le democrazie moderne che il carattere spettrale e ignominioso della violenza poliziesca si rivela, mentre in un contesto segnato dalla monarchia assoluta – laddove per definizione è impedita la divisione dei poteri – essa piuttosto si sostanzializza in forme rigide, perdendo così buona parte del suo carattere di devastante ambiguità.
Da queste considerazioni si inferisce come una critica effettivamente fondata alla violenza degli apparati repressivi di Stato possa essere condotta a termine solo a patto di investire con la forza della contestazione l’intero ordine giuridico nella sua consistenza destinale, e non solo la polizia, o – ancora più velleitariamente – la parte peggiore della polizia, i macellai di Genova e compagnia brutta.
Grazie, m'ero persa questo tuo post, essendo via quando l'hai scritto, e ovviamente - da nota pigra qual sono - tutto il testo originario di Benjamin... Molti spunti di riflessione alla fine dei quali mi chiedo quali possano essere le strategie per "investire con la forza della contestazione l’intero ordine giuridico nella sua consistenza destinale". Un po' di idee le ho, mi muovo sulla falsariga di quelle (ben vedendo che tu stai facendo, da quando di conosco online, la stessa medesima cosa a modo tuo). Continuiamo! Ciao!
RispondiEliminaTi faccio eco: continuiamo.
RispondiEliminaa presto!