Fino a quaranta anni fa essere operai, essere donne significava l’incarnazione di uno stile di vita di cui andare orgogliosi, un modo speciale per soddisfare i propri desideri e bisogni. Qualcosa di ontologico ancor più che politico, una potenza affermativa che ha saputo strappare e determinare diritti fondamentali, prima che tutti diventassero borghesi e lo spirito di scissione s’illanguidisse nell'anestetica rincorsa collettiva ai consumi.
Se il desiderio è l’essenza attuale di una cosa, che cosa desiderano i precari oggi, e soprattutto come lo desiderano, in quali forme? Domanda ineludibile, perché “precariato” non denota più semplicemente una condizione di “lavoro atipico”, com’era agli inizi del XXI secolo (anni 1989-91: il Novecento, secolo brevissimo), bensì indica una particolare situazione esistenziale, affettiva, comunicativa etc. tendenzialmente permanente. Non è gavetta, è l'intera vita.
È condizione dura e difficile, e noi non cessiamo di analizzarla e di denunciarla. Rifiutiamo però la definizione – tanto cara al paternalismo imbecille attecchito in casa PD e CGIL – di “soggetti deboli”, perché il lavoro – anche se sovente si sviluppa in contesti di miseria – non è debolezza né indigenza, ma forza materiale, gioiosa, creativa e resistente.
A noi piace lavorare. E poiché resistere – ne siamo persuasi – significa esistere diversamente, un’autentica pratica politica, proprio per l’autonomia attraverso cui eccede le abituali concezioni, costituisce differenza e non resta intrappolata nella fasulla alternativa dialettica/oppositiva che in Italia ha assunto – e continua ad assumere – le fattezze grottesche di un antiberlusconismo che parla lo stesso linguaggio del potere. Ineffettuale, sterile, improduttiva, pericolosa è infatti quella prassi uggiosa capace solo di opporre un contro-mood al mood dominante (come disse una volta Enrico Ghezzi). Tutto il sottobosco dell’antipolitica ne è impregnato.
Le idee che costruiamo e di cui ci appropriamo non costituiscono dunque una sovrastruttura orientata a determinare dogmaticamente le nostre condotte, al contrario le usiamo, le ibridiamo, ci giochiamo, perché il gioco – diversamente dal vile scherzo – è sempre cosa serissima.
Amen, my dear!
RispondiElimina"Ciao! Sono Pinco Pallino, e tu?"
"Minerva"
"E che lavoro fai Minerva?"
"Scrivo, faccio ricerca, insegno, giro documentari, traduco, organizzo iniziative ed eventi artistici e culturali."
"Ah, anche tu precaria...".
"Ecco, facciamo così: chiedimelo di nuovo."
"E che lavoro fai Minerva?"
"Sono un'antropologa"
"E cosa significa essere un'antropologa?"
"Beh, scrivere, fare ricerca, insegnare, girare documentari, tradurre, organizzare iniziative ed eventi artistici e culturali."
"E ci campi?" (perché darmi della precaria non possono più, ma la preoccupazione del soldo - e soprattutto di quanto - è per molti prioritaria)
"Diciamo che sopravvivo, ma che mi gestisco il tempo come voglio, faccio cose che mi appassionano e in cui credo, e mi diverto molto."
Anche imporre un cambiamento nella modalità di comunicazione può promuovere 'frame' che non ci facciano percepire/sentire miserabili pezzenti in relazione alla questione del lavoro, eh? ;-)
Sì, anche perché noi siamo attività sensibile, il modo con cui estrinsechiamo la nostra vita, la nostra produzione. In questo senso siamo lavoro.
RispondiEliminaCambiare nella modalità della comunicazione, e aggiungerei: selezionare i giusti interlocutori;-)
Amen nuovamente :-)
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