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giovedì 16 giugno 2011

IDOLA, FuORI! - Anti-Moore - o del fumetto come militanza

Uno degli aspetti più deprimenti che travaglia buona parte del fumetto mondiale e che maggiormente indispone è lo psicologismo. Prestare cioè una vita interiore ai personaggi.
 

Batman. Non c’è nulla di più esilarante e inverosimile di un tizio che comincia a vestirsi da pipistrello dopo aver assistito all’assassinio di papà e mammà. La cosa interessante consisterebbe al limite proprio nel lavorare attorno a questa inverosimiglianza, ma Miller è troppo insensibilmente cretino e ottuso, e nei suoi fumetti c’è infatti posto solo per il sarcasmo (caratteristicamente fascista) a detrimento dell’umorismo.
Per garantire credibilità al deficiente in calzamaglia, non si hanno remore nello spingere a mille sul dramma, la tragedia, la psicosi, il privato. Il risultato è incidentalmente comico e strutturalmente importuno. Lo stesso si può affermare di Moore e dei suoi Watchmen, figurine stereotipate corredate da miserabili nevrosi e ordinarie ipocondrie. Un tizio vede la mamma prostituirsi e diventa necessariamente giustiziere edipico; di contorno ci sorbiamo il supereroe in pensione, lardellato, ornitologo, imbranato, l’eroina politicamente corretta... una pena. È una pena quando il fumetto si fa rappresentazione di simile ridicola, piccola, finta umanità, ed è disastroso (oltre che astratto) quando affonda nel segreto della biografia privata per cercare la via d’interpretazione di un’ossessione, per garantirle una plausibilità.

Anche Beautiful procede così, tra recondite confidenze e riposte inconfessabili stronzate!

Ci ripuliamo da tutta questa spazzatura leggendo Segar, Herriman, Sullivan, Adams, Trondheim... qui la pazzia crea se stessa, trova un proprio autonomo statuto espressivo senza derivare la propria ragione d’essere da qualche tesi freudian-pugnettara o, peggio, da qualche altra pretesa sociologica del cazzo.

Solo un esempio di genialità: Braccio di Ferro. Meccaniche esilissime, singolarità che si riproducono passando attraverso affettività e motivazioni di base. Come si autocostituiscono i personaggi di Popeye, Trinchetto o Poldo se non attraverso delle elementari crapule compulsive? Se non tramite botte da orbi, spinaci, vino, panini? Di loro non sappiamo altro che questo, non abbiamo che queste concatenazioni esteriori, ogni psicologia è rigorosamente interdetta... semplice sforzo autopoietico, e finalmente possiamo respirare! Sullo sfondo troviamo ambientazioni anonime, città bianche, pulitissime. Herriman, il più geniale di tutti, costruisce la macchina affettiva più semplice e perfetta che si possa immaginare, essendogli sufficienti un cane innamorato di un gatto a sua volta innamorato di un topo e il dinamismo di un mattone per architettare un universo autonomo e del tutto funzionante.

Se il mondo dei comics sbadiglia, si ritorni al principio, si ritorni a Krazy Kat per capire che cos’era il fumetto prima del suo disgraziato assorbimento nel professionismo, nello specialismo, nell’industria marveliana e bonelliana. Si faccia ritorno a Ignatz Mouse, a Popeye, a Felix... Ci appassioniamo a simili figure, così come ai primi cartoni animati di Lantz, di Disney e a quelli formidabili di Tex Avery, perché vi riconosciamo l’innocenza di una potenza impersonale, antiumana, antisentimentalistica. Vi ritroviamo non il vissuto particolare (su cui punta Moore per propiziare nel lettore la disgustosa e ormai collaudata prassi mucciniana dell’immedesimazione), ma la vita stessa nel suo costituirsi e annientarsi. Herriman crea la vita laddove l’autore di Watchmen si limita a metterla in scena, a rappresentarla, a mimarla attraverso le sue fasulle figurine da teatro.

Walter Benjamin sostiene che i film di Mickey Mouse “sconfessano il valore dell'esperienza più radicalmente di quanto si sia mai fatto”, aggiungendo che “in quel mondo non vale la pena provare esperienza”. Non vale la pena perché comunque non ne conserveremmo memoria, perché il principio di causalità è eternamente destituito, e perché Topolino esprime la più estrema esautorazione dell’identità personale e della sua storia. E non dobbiamo lasciarci fuorviare da quanto ancora scrive lo stesso Benjamin, secondo il quale il successo di questi film sarebbe dato “dal fatto che il pubblico vi riconosce la propria stessa vita”, poiché per vita s’intende qui l’esistenza piena e collettiva, di certo non la mera dimensione interiore, borghese, possessiva e individualistica che noi tutti di routine sperimentiamo. Anzi, l’espulsione del vissuto diventa intransigente presa di posizione politica contro il naufragio nel domestico e l’ordine di Stato imposto dal capitale.
Moore al contrario riporta tutto al quotidiano, schiacciandoci a monte col peso mortale di una sceneggiatura inesorabile, totalizzante, poliziesca, a cui non sfugge un dettaglio e che alla fine sussume a sé tutto quanto in una specie di universo paranoico del controllo. Moore, il nume tutelare che ogni cosa sovrintende, non potrà mai permettersi di esperire l’estromissione dell’autore ad opera di un suo personaggio, così come invece accade con Zanardi di Pazienza (cfr. Pacco, e quanto scrive il suo Autore a riguardo). È qui in gioco un diverso modo di concepire il fumetto. Il fumetto come il cinema inteso da René Clair: una superba arte barbara, non letteraria. Non graphic novel – soprattutto –, ovvero non un fumetto concepito (o per meglio dire abortito) da aspiranti romanzieri irrisolti, destinato a cattivi lettori, troppo immaturi per affrontare Dostoevskij. Di Zanardi si può dare un’etologia, giammai una psicologia, non è possibile farci della letteratura sopra, eppure la sua consistenza concreta supera immensamente quella di un Rorschach. A morte Watchmen; viva l’anarchia di Krazy Kat!

MM

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