Questa, sosteneva già vent’anni fa Gilles Deleuze, è l’epoca dell’ibrido, del lavoratore-liceale, in perpetua, ininterrotta formazione. Il precario (l’insegnante-studente) ne è una variante. Secondo i vaniloqui dei pedagogisti (personaggi “simpatici” – così li chiama eufemisticamente Luciano Canfora –, ignoranti che non sanno bene quello che dicono, che si lasciano traforare dalle proprie stesse parole), l’“istruzione per tutto l’arco della vita” comporterebbe indubbi vantaggi, offrendo reali opportunità per un continuo arricchimento culturale precedentemente sconosciuto, in conformità alle sempre più cogenti esigenze di gestione e crescita del “capitale umano”. Organicamente a questo “continuo apprendistato”, si determinerebbero poi virtuosi dispositivi di selezione degli insegnanti migliori, a cui farebbero seguito relativi avanzamenti di carriera e incentivi salariali (improbabili). La proverbiale ghiotta farcitura su una torta di merda, per usare un’espressione céliniana.
I precari impiegati nella scuola pubblica, da maestri del sospetto quali sono (lo si deve diventare per forza, se si vuole sopravvivere), non si lasciamo turlupinare, perché sanno annusare il pericolo degli abusi impliciti in queste generiche e apparentemente condivisibili formule. Le prevaricazioni a cui si è esposti oggi sono diverse a confronto con quelle in atto decenni fa, conformi al mutato modello economico-produttivo (dal fordismo al postfordismo, dalla teoria del valore-lavoro alla nuova economia globale), a cui si deve reagire con strumenti adeguati che ancora devono darsi.
Il momento è delicato. Riconoscere le prossime derive autoritarie per poterle denunciare in tempo è la prima forma di resistenza. A tutte queste chiacchiere sulla scuola di qualità sono sottese ben altre intenzioni, tutt’altro che innocenti. Per identificarle è necessaria una preliminare nota storica. La scuola tradizionale è in crisi, come tutte le altre istituzioni delle moderne società disciplinari (si vedano a riguardo le analisi di M. Foucault) a essa isomorfe: fabbrica, prigione, caserma, ospedale etc., tutti luoghi ben delimitati e chiusi in se stessi. Oggi, nell’epoca delle società del controllo, il modello di riferimento vincente è l’impresa che opera apertamente su un territorio. Analogamente, gli istituti educativi sono a loro volta chiamati a “estroflettersi” per interagire con enti pubblici e finanziatori privati.
Proprio in forza di questo paradigma, l’istituzione scolastica rischia di dequalificarsi completamente sotto forma di terziario a vantaggio del capitale globale, in un’ottica cioè di continua produzione e offerta di beni immateriali, ovvero di formazione che si suppone (con scarsissima lungimiranza) istantaneamente spendibile sul mercato del lavoro (da qui, la volontà di modificare lo statuto giuridico dell’insegnante e la pretesa di convertire le scuole in fondazioni, con inquadramento gerarchico dei lavoratori in omologia con le strutture aziendali). Siamo alla liquidazione di tutto ciò che finora abbiamo chiamato scuola pubblica, presto destinata a dissolversi nel gorgo delle molteplici opportunità di offerta formativa. Il mercato ne è saturo, con l’unico risultato di drenare credito e fiducia ai lavoratori-liceali, che quanto più si formano tanto meno possono sperare in un lavoro. Ecco allora che cosa significa davvero formazione/selezione permanente: ricatto permanente, sorveglianza permanente e precarizzazione permanente, in linea con l’attuale organizzazione del lavoro (mobilità e flessibilità oltre ogni limite umano). Così gli insegnanti saranno sempre più spesso chiamati a rispondere dinanzi a qualche autorità (quali? Domanda legittima in questa fase storica di dissoluzione della sovranità statuale) relativamente a ciò che fanno e a come lo fanno, secondo criteri calati dall’alto, per niente chiari e comunque ampiamente discutibili.
Lo stato di minorità, che secondo Kant sarebbe dipeso da una certa inclinazione all’inerzia mentale, nell’epoca del lavoratore-liceale, pregiudizialmente considerato incapace di autoformazione, diviene una situazione esistenziale immodificabile, francamente insostenibile da parte di chi ancora dispone di una certa dose di consapevolezza politica. Si tratta di capire quanti siamo.
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