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domenica 24 luglio 2011

Postmodernità premoderna


I recentissimi avvenimenti norvegesi offrono l’occasione per una serie di considerazioni che ambirebbero a trascendere il mero dato di cronaca per dimensionarsi dentro un orizzonte più ampio, capace di tenere conto di prospettive di più lunga durata.

A riguardo, vorrei tenere presente anche un altro evento risalente al 2009, ovverosia il conferimento a Barack Obama del premio Nobel per la pace (proprio a Oslo, com’è tradizione).
Tutto ciò allo scopo di fare nuovamente emergere, alla luce dell’immanente dialettica tra modernità e postmodernità, i segni inequivocabili di una plurivoca crisi mondiale. Le categorie (giuridiche, politiche, economiche, sociali etc.) sviluppatesi in età moderna appaiono infatti oggi esautorate, vale a dire incapaci di imprimere nuova forma e di mantenere saldo l’ordine globale. Al contrario, lo scenario attuale sembrerebbe alludere piuttosto a una situazione tipica dell’età premoderna europea, cioè prevestfaliana.

Brevemente, in che cosa è consistita la modernità sotto un profilo politico?

I sovrani europei, dopo il 1648, cioè dopo la fine dell’ultima grande guerra di religione combattutasi sul Vecchio continente, fecero cessare le guerre civili neutralizzandole in un ordine politico, lo Stato, il quale – in nome di Dio – secolarizzava la religione e la utilizzava come esteriorità formale e come strumento ordinativo (si veda a proposito la subordinazione dell’autorità ecclesiastica al potere civile, il gallicanesimo, l’anglicanesimo etc.). La teologia e la ragione divina di età medievale furono così sostituite dal nuovo primato della scienza politica e dalla ragione mondana (di cui il giusnaturalismo era importante espressione).
Il silete theologi in munere alieno di Alberico Gentili acquista qui un valore particolarmente significativo.
Le caotiche guerre confessionali e di fazione cessarono in forza della centralità giuridica dello Stato e di quell’atto originario e indeducibile noto come decisione sovrana (si faccia riferimento a Hobbes, soprattutto nella lettura che ne dà Schmitt). I conflitti civili di religione furono dunque neutralizzati nella guerra ordinata, cosiddetta “in forma”. Il sovrano, dotato del monopolio della violenza, riuscì insomma nell’impresa di imporre la pace all’interno dei confini del proprio regno.
Si generò così un nuovo nomos, un nuovo ordine politico spazialmente determinato: l’Europa degli Stati moderni, che da allora si confrontarono – in pace e in guerra – sulla base di un nuovo diritto internazionale, sorto appunto dopo Westfalia 1648 (e nonostante i numerosi scossoni, tra cui la Rivoluzione francese, questo equilibrio resse fino alla crisi generata dalle guerre civili mondiali del XX secolo). Alla guerra “in forma” corrispose poi una coerente rappresentazione del nemico, determinatasi nella dottrina del “nemico giusto”.

Lo Stato moderno era una macchina in grado di produrre continuamente la pace dentro le proprie frontiere, attraverso organici apparati di polizia utili a reprimere la violenza interna scatenata dal criminale. Il nemico cessava così di essere assimilato al criminale, poiché non era più interno, bensì esterno ai confini (un altro Stato). I nemici (Stati egualmente sovrani) si davano quindi battaglia con eserciti regolari, affrontandosi alla pari – analogamente a un duello –. Esisteva dunque un’importante simmetria che consentiva a due enti giuridici sovrani di rispettarsi anche in guerra. Tra giusti nemici si è tenuti infatti a emettere formali dichiarazioni di guerra, e ci si obbliga a trattare umanamente i vinti. I conflitti terminavano con trattati di pace regolari (inclusivi di un’amnistia), sulla base del reciproco riconoscimento del diritto comune a ciascuno Stato dello jus ad bellum (il diritto a fare la guerra, come strumento valido per condurre la propria politica estera).
La dottrina del giusto nemico liquidava dunque l’antica dottrina della guerra giusta, che durante la prima modernità era servita nella lotta per l’egemonia come giustificazione per un cieco annientamento del diverso (pensiamo solo agli scontri di fazione tra cattolici e ugonotti nella Francia del XVI secolo). La guerra giusta è infatti una guerra condotta secondo una giusta causa contro un nemico degradato a criminale, a eretico, cioè a nemico ingiusto e interno all’ordine politico. Un nemico che si può solo combattere senza scendere a patti, giacché non esiste simmetria.
Certamente chi si è trovato a Oslo-Utoya, durante e dopo la strage, avrà potuto osservare scenari di sangue analoghi a quelli che avrebbe potuto descrivere Grimmelshausen in Germania, durante gli sconquassi della Guerra dei Trent’anni. Quando la politica s’indebolisce e si ritira (gli Stati non sono più da molto tempo ormai i veri agenti della politica internazionale, sopravanzati come sono da altri enti a carattere transnazionale o sovranazionale), il suo spazio è saturato da altre cose, tra le quali il fondamentalismo (non solo quello islamico della jihad, ma anche quello cattolico – come in questo caso –, protestante etc.).
Sicuramente quell’estremista norvegese di destra è un criminale che ha identificato in soggetti ideologicamente distanti dalle proprie posizioni dei nemici assoluti, cioè da distruggere e basta.
Ad aggiungere inquietudine ci pensano poi ovviamente Al Qaeda, ma anche gli Stati Uniti, ovvero – secondo alcuni – la gendarmeria del nuovo impero mondiale. Obama, contestualmente al conferimento del premio Nobel per la pace 2009 – come peraltro facevo notare in un vecchio post –, ha posto esplicitamente l'esigenza di recuperare (secondo formule rinnovate, ma non troppo) la dottrina della guerra giusta contro il terrorismo internazionale, contro coloro che lui stesso definisce “piccoli uomini dotati di rabbia smisurata”.
Si presti attenzione al lessico: li chiama “piccoli”, il che indica asimmetria, e poi allude alla loro aggressività priva di misura, illimitata, senza forma, ingiusta. Criminale. A suo dire, la guerra per ragioni umanitarie giustificherebbe un'azione militare ex justa causa (a proposito ha voluto ricordare la guerra della Nato in Kossovo). Anche perché sembra davvero convinto che i valori morali intrecciati alla politica possano efficacemente servire a limitare la portata devastatrice dei conflitti.

In realtà che cosa succede quando la nozione morale di “giustizia” si congiunge con quella politica di “guerra”? E' la catastrofe, perché spiana la strada a processi di universalizzazione che estendono il concetto di guerra ben oltre i limiti e gli scopi della politica (per definizione limitati), in nome cioè dell’umanità stessa. Correlativamente si attribuiscono al nemico caratteri inumani o disumani, e contro un soggetto così rappresentato ogni strumento rischia di diventare lecito: armi al fosforo, bombe a frammentazione etc. mezzi cioè che non discriminano più tra soldati e civili. Come ho ricordato, la guerra giusta è sinistramente nota in Europa come guerra di annientamento ai danni di un nemico ingiusto, abbassato cioè a livello di criminale (le già citate guerre di religione, ma anche quelle ideologiche contro i “nemici della Nazione”, come nel 1793 in Francia, o le guerre del Novecento condotte verso esseri considerati biologicamente inferiori). Quindi prestare nuovamente all'avversario le fattezze del maligno (come Bush e Obama fanno a proposito del terrorismo internazionale, e come dall’altra parte fa Al Zawahiri) significa legittimare ideologicamente una soluzione bellica illimitata e permanente, con conseguenze che sono ormai ampiamente verificabili da tutti noi.





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