IL BLOG


IL MOVIMENTO REALE AL FOTOFINISH CON LO STATO DI COSE LATENTE.


sabato 24 dicembre 2011

L'altra Natività: 9/11/1989 - a Berlino nasce l'Anticristo


Dopo più di un anno da blogger ho finalmente capito che cos'è Humachina, un lamento di castrazione: il grande progetto di trasformazione della "paideia in humanitas" è tramontato. Oggi si può ricominciare a fare politica solo partendo dalle sue cicatrici.

giovedì 22 dicembre 2011

L'animale marino agonizzante...

... alla fine de La dolce vita è un Cristo spiaggiato – circondato dagli astanti – che si è fatto carico non dei peccati, ma della tragedia del mondo. Fenomeno del tutto immanente a se stesso, alla propria carne. Suggello di una profonda fedeltà alla terra. Non sollecita soteriologie, né evoca trascendenze. Colpisce immediatamente il sistema nervoso al di qua e al di là di ogni possibile deriva sentimentalistica, come le crocefissioni di F. Bacon. Commozione, ma solo cerebrale.

domenica 4 dicembre 2011

Dead bug


Mi sono stancato di scrivere. In un mondo tendenzialmente sempre più brutto, non si capisce perché le parole dovrebbero fare eccezione.

mercoledì 30 novembre 2011

IDOLA, FuORI! 18 - Essere periferici

Ho idea che la vita abbia inizio quando s'incontra qualcosa su cui delirare. Animali, stagioni, oggetti, dottrine. Malevič si è consumato nel corpo a corpo con le proprie irriducibili chimere. "Ribellarsi alla tirannia delle cose". È il giusto complemento all'espressione artaudiana secondo la quale l'esistenza che troviamo già apparecchiata (dalla famiglia, dalle istituzioni, dai rapporti di produzione, dalla specie etc.) è solo stupida abiezione. Ma nessuno ci garantisce a priori un incontro con il delirio, con l'occasione per delirare. Solo i nevrotici credono che tutto sia loro dovuto, come per diritto naturale (la libertà, l'amore, la vita...).

sabato 19 novembre 2011

martedì 15 novembre 2011

IDOLA, FuORI! 17 - Governo tecnico

Il capitalismo sembra non essere più controllabile. La tecnica – come paradigma del razionalismo strumentale e acquisitivo, dell’intellettualismo calcolante, del neutralismo apolitico, delle configurazioni ordinative automatiche – non lo è certamente, a maggior ragione nell’epoca della totale estrinsecazione della sua potenza. Il corredo ideologico del vecchio soggetto moderno oggi sgambetta autonomamente, del tutto immemore della propria origine.

La speranza di dirigere i processi, notoriamente ultima a morire, s’è suicidata ben prima dei titoli di coda.

Le tecnostrutture ovunque dissociano, estraggono e riuniscono. Promuovono cioè certe dinamiche comunicative, certe circolazioni affettive, nel medesimo tempo separando le singolarità irretite nella coazione dalla pienezza concreta del bios: separano dall’essenza, dalla potenza, dalla produzione, dall’amore, dall’amicizia etc. Queste possono darsi, ma solo all’interno di un quadro già frantumato, in un rapporto di alienazione, in cui il dominio di una ratio puramente strumentale vige incontrastato. L’uomo, come progetto politico e autopoietico, è compiutamente abortito, appena preceduto nel decesso dai suoi feticci e dalle sue chimere.

Anche l’opposizione istintiva è quindi lotta condizionata materialmente da un meccanismo ostile che risponde colpo su colpo all’ammutinamento di colui che è captato nell’automaticità di sistema.

C’è da inventarsi una paradossale manovra à la Munchausen, senza indulgere a ingenue nostalgie umanistiche e romantiche, e senza naufragare nel narcisismo infantile della condizione nichilistica.

Paradossale non significa comunque impossibile. Potrebbe essere un paradosso facile, come "facile" è la decisione. E questo implica, evidentemente in forme rinnovate, la vecchia questione della costruzione del soggetto.

sabato 12 novembre 2011

Think tank


L’altra elite. Quella organizzata attorno alle politiche di potenza e dell’interesse, 
quella che (oggi) ci straccia 1 a 99.

martedì 8 novembre 2011

IDOLA, FuORI! 16 - Spirito d'elite

La vita è breve. Imparare a leggere in filigrana il reale – senza farsi distrarre dalla spettacolarità dei ritmi evenemenziali e dall’obsolescenza dell’attualità (si dimette/non si dimette; il male minore/il peggio etc.) – è fatica dura. Vale la pena non perdere tempo, il che significa bruciare le edicole, annientare la RAI, chiudere account facebook e assumere la postura dell’Angelus novus: unico estremismo valido in questa fase, e per di più corredato di piacevolissimi effetti collaterali, esclusivamente fruibili da chi sa godere sul serio: quella che io chiamo l’elite – milioni di anni luce distante dalla “casta” e dalle miserie olgettine –.

La storia della politica è storia delle avventure della mediazione, del rapporto tra istituzione e società che consente – non senza opacità residuali – il trascorrere del particolare nell’universale. Ci passa attraverso tutto l’Occidente, dall’idealismo platonico, passando per le gerarchie ontologiche medievali fondate sulla sostanzialità degli universali (l’ordine già dato e solido dell’essere), fino al nominalismo di Hobbes – la cui apertura al trascendente si esprime in termini di mera esigenza di forma e di ordine –, alla costruzione del soggetto moderno, alla Aufhebung hegeliana, alla critica marxista nelle sue diverse sfaccettature etc.

Ecco, l’antipolitica indica il comodo rifiuto infantiloide di confrontarsi con tutto questo. Ovviamente, antipolitica significa tecnicismo, volgare prassi amministrativa di Palazzo, banditi al governo. Ma antipolitica è anche la cattiva immediatezza della poltiglia del cuore che percorre certa indignazione dal basso, cioè quella dell’opinione pubblica cianciante ovunque, sollecitata a parlare bene/male del potere su mandato dissimulato del potere stesso.

Grillini, dipietrini, santorini, comencinini, i crassi catalizzatori dei malumori di massa, gli apprendisti stregoni dell’illusionismo tecnocratico, delle reattività gastriche e delle coazioni prostatico-ovarico-uterine. In una parola, il vulgus tanto temuto dall’autore del Trattato Teologico-Politico.

Spinoza dunque, ma anche Hegel. Antipolitica è la pretesa di auto-rappresentazione senza idee, senza partito, senza organizzazione, senza progetto costituente, senza metodo, ma con presente davanti alle cataratte l’immagine confusa dell’idolo di turno da maledire. Presente il toro nell’arena? Antipolitica è il formalismo implicito alla credenza nella placida modulazione progressiva individuo privato-istituzione-universalismo. In fondo, nient’altro che la solita grande astrazione liberale, secondo cui la somma dei privati costituirebbe immediatamente la dimensione pubblica dello Stato.

La buona immediatezza concreta, interna alla mediazione, ma in grado di eccederla per iperpoliticità, quella che Marx vedeva nel proletariato, dov’è oggi? Forse in quel formidabile laboratorio politico che è la Val di Susa, e ovunque si sviluppi consapevolezza e strategia, nella rabbia, ma anche nella gioia (passione spinoziana) di resistere, ovvero di creare collettivamente pratiche e concetti, forti della propria preparazione. La buona elite.

lunedì 31 ottobre 2011

sabato 29 ottobre 2011

Fottuti

Il passato è un tiranno, infatti sarebbe meglio non avercelo. D'altra parte il futuro è ricattatorio, dunque non resterebbe che il presente, notoriamente menzognero.

mercoledì 26 ottobre 2011

IDOLA, FuORI! 15 - Soggetti forti

Fino a quaranta anni fa essere operai, essere donne significava l’incarnazione di uno stile di vita di cui andare orgogliosi, un modo speciale per soddisfare i propri desideri e bisogni. Qualcosa di ontologico ancor più che politico, una potenza affermativa che ha saputo strappare e determinare diritti fondamentali, prima che tutti diventassero borghesi e lo spirito di scissione s’illanguidisse nell'anestetica rincorsa collettiva ai consumi.

Se il desiderio è l’essenza attuale di una cosa, che cosa desiderano i precari oggi, e soprattutto come lo desiderano, in quali forme? Domanda ineludibile, perché “precariato” non denota più semplicemente una condizione di “lavoro atipico”, com’era agli inizi del XXI secolo (anni 1989-91: il Novecento, secolo brevissimo), bensì indica una particolare situazione esistenziale, affettiva, comunicativa etc. tendenzialmente permanente. Non è gavetta, è l'intera vita.

È condizione dura e difficile, e noi non cessiamo di analizzarla e di denunciarla. Rifiutiamo però la definizione – tanto cara al paternalismo imbecille attecchito in casa PD e CGIL – di “soggetti deboli”, perché il lavoro – anche se sovente si sviluppa in contesti di miseria – non è debolezza né indigenza, ma forza materiale, gioiosa, creativa e resistente.

A noi piace lavorare. E poiché resistere – ne siamo persuasi – significa esistere diversamente, un’autentica pratica politica, proprio per l’autonomia attraverso cui eccede le abituali concezioni, costituisce differenza e non resta intrappolata nella fasulla alternativa dialettica/oppositiva che in Italia ha assunto – e continua ad assumere – le fattezze grottesche di un antiberlusconismo che parla lo stesso linguaggio del potere.  Ineffettuale, sterile, improduttiva, pericolosa è infatti quella prassi uggiosa capace solo di opporre un contro-mood al mood dominante (come disse una volta Enrico Ghezzi). Tutto il sottobosco dell’antipolitica ne è impregnato.

Le idee che costruiamo e di cui ci appropriamo non costituiscono dunque una sovrastruttura orientata a determinare dogmaticamente le nostre condotte, al contrario le usiamo, le ibridiamo, ci giochiamo, perché il gioco – diversamente dal vile scherzo – è sempre cosa serissima. 

martedì 11 ottobre 2011

IDOLA, FuORI! 14 - "Stay foolish"

L’individuazione si dà nella dimensione comunitaria, ma l’individuo è l’astratto borghese.

Un “dettaglio” che fatica a entrare nei crani vuoti di tanti sedicenti liberali di casa nostra, tutti presi dal sogno imbecille di una comunità di soggetti perfettamente autonomi e placidamente calzati in un mondo altrettanto singolarizzato, fatto su misura con tariffe personalizzate, salari personalizzati, diete personalizzate, apprendimento personalizzato, leader politici personalizzati… in una parola, Omnitel: “Tutto gira intorno a te”. L’unica libertà è quella ideologica dell’individuo, o meglio del consumatore (sempre e comunque triste, solitaria e insoddisfacente, poiché la produzione non è oggi evidentemente collettiva). E poiché viviamo in un mondo di marchi, ricordiamoci anche dello slogan di Fastweb, nelle parole di un celebre evasore fiscale: “Ognuno dovrebbe essere libero di fare come crede”, ma questo può darsi solo nell’orizzonte già spezzato di chi acquista e consuma un servizio.

L’annientamento di ogni discorso indicante uno straccio di coscienza storica e politica è diventato uno sport, e lo stato di cose presente sembra non richiedere giustificazioni. Esso appare, dunque è tutto ciò che può essere, e tutto ciò che esiste è anche buono: il mantra del capitale monologante. Allora forse qui giova ricordare qualcosa di Marx, parole che non costituiscono funamboliche demagogie da spot, perché sono parole dotate di senso.

La condizione dell’uomo è condizione collettiva di relazione e comunicazione (La ricchezza spirituale reale dell’individuo dipende interamente dalla ricchezza delle sue relazioni reali, si legge nell’Ideologia tedesca): facoltà reificate per separazione dal comune e sussunte oggi completamente nel rapporto capitalistico. Che cos'è infatti la produzione? È il lavoro vivo, a cui – nell’epoca del terziario dominante, del linguaggio come forma avanzata di comunità, della socializzazione della produzione, del lavoro immateriale/intellettuale – il capitale risponde con la sua oggettivazione in valore di scambio, allo scopo di mettere a profitto ogni elemento che qualifica un’esistenza particolare come umana: relazione, affettività, improvvisazione, comunicazione, immaginazione, creatività, intraprendenza – tutto quanto viene evocato dalle chiacchiere dei pubblicitari fino ai discorsi di un miliardario con il pancreas in metastasi a Palo Alto – sono nient’altro che un accumulo di merci.

Il terzo settore, che reifica il linguaggio in risorsa da sfruttare per la valorizzazione del capitale, ne è un esempio. Nei Grundrisse, Marx sostiene come il linguaggio consista nell’esserci stesso della comunità, il suo modo naturale d’esistere. Ed ecco conclamato un aspetto del biopotere nell’attuale organizzazione e divisione del lavoro: la ricchezza si produce appropriandosi direttamente di competenze immateriali, relazionali, comunicative e affettive (come risulta in modo esemplare nel marketing). Le ciance dei copywriter sono ormai l’unica mercanzia sulla piazza. Non si promuove più il prodotto ma la sua vendibilità. Quando si compra un nuovo cellulare o una nuova automobile non si acquista tanto nuova tecnologia (i cui costi di produzione e il prezzo, man mano che la sua potenza aumenta, tendono allo zero), quanto un nuovo servizio che contribuisca a rinnovare il rilievo pubblico dell’acquirente, di cui deve essere noto il profilo sociale individualizzato (di qui, il contributo prezioso dei social network). Un’individualità astratta, perché ricostruita in un rapporto di separazione dalla viva comunità politica, la quale sola si esprime in singolarità concrete.

E proprio perché la competitività risulta via via impraticabile a causa del dispiegarsi progressivo di tutta l’innovazione e la potenza della tecnica, il valore economico tende a costituirsi direttamente dentro i rapporti sociali. La catena di montaggio è ovunque, dentro e fuori la fabbrica, dai primi baci agli ultimi addii.

mercoledì 5 ottobre 2011

IDOLA, FuORI! 13 - Freedom is slavery

La libertà implica l'esistenza di un sistema di giudizio, e viceversa. La libera volontà è un trucco teologico per rendere l’umanità responsabile e giudicarla colpevole. Evidentemente si può giudicare qualcuno reo solo a patto di riconoscergli il libero arbitrio. Dunque è vero, nulla è più atrocemente vincolante della libertà.

venerdì 30 settembre 2011

IDOLA, FuORI! 12 - Insufficienza dell'ateismo

Non a-teo, perché non mi sento privato di nulla. Non ateo, perché ateismo implica sempre un riferimento al trascendente, anche se al negativo. Non ateo, perché si tratta di uscire dalla logica binaria soggiacente alla domanda “credi?” (o sì o no). L’unico atto decisivo, per usare le parole di Artaud, consiste nel farla finita una volta per tutte con la questione di Dio.

domenica 25 settembre 2011

IDOLA, FuORI! 11 - Apologia della crisi

La crisi – non quella triste, finanziaria o di governo – è fisiologia, occasione per produzione di essere. Kairós. Non malattia dalla quale riprendersi o fuggire in cerca di conforto, ché anche se lo fosse non sarebbe tanto qualcosa da cui guarire, quanto qualcosa su cui investire.
Nietzsche, Rabelais, Cervantes, Gombrowicz sono più saggi di Freud. Abbiamo bisogno di un esordio, non di un’eziologia, men che meno di una causa prima. Cerchiamo una techne, non una morale, non una giustificazione. Ci deve bastare come punto di partenza. Qui s’inaugura il processo di costruzione di un piano politico e di vita: Il grande evento comincia al di là di tutto ciò che esiste, dunque in un luogo sconosciuto e con un uomo sconosciuto (Althusser, Machiavelli e noi). È come Don Chisciotte; a Cervantes non interessa la genealogia della sua pazzia, l’esordio è l’hidalgo cui si è seccato il cervello per via del gran leggere.

Sì, un punto di partenza. Invano lo si cercherebbe all’inizio. Non cominciamo da una ragione cartesiana che sia prima e assoluta, perché si parte sempre nel bel mezzo di una pratica. Lo sa bene Spinoza (il più saggio di tutti): In verità il problema si pone qui negli stessi termini che per gli strumenti materiali, a proposito dei quali si potrebbe argomentare allo stesso modo. Infatti per forgiare il ferro occorre un martello, e per avere un martello è necessario farlo; e per farlo occorre un altro martello ed altri strumenti, per avere questi occorreranno altri strumenti e così all’infinito; in questo modo invano si cercherebbe di provare che gli uomini non hanno alcuna possibilità di forgiare il ferro. Ma come gli uomini all’inizio potevano fare con gli strumenti naturali cose facilissime, sebbene faticosamente e imperfettamente, e fatte queste ne eseguirono altre più difficili con minore fatica e maggiore perfezione, e così gradatamente procedendo dai lavori più semplici agli strumenti e dagli strumenti ad altri lavori e ad altri strumenti, arrivarono al punto da eseguire tanti e tanto difficili lavori con poca fatica – così anche l’intelletto con la sua forza innata si fa degli strumenti intellettuali con i quali si acquista altre forze per altre opere intellettuali e da queste opere si forma altri strumenti, ossia il potere d’indagare ulteriormente; e così avanza gradatamente fino ad attingere il culmine della sapienza (TEI § 30-31).

Essere attivi senza vita interiore, senza identità, senza sapere bene che cosa si vuole ottenere, ma con il presentimento che inaugurando una prassi si riuscirà prima o poi a trovare qualcosa che faccia al caso nostro. Un errare produttivo in cerca di occasioni, di avventure durante le quali ci costruiremo un’arma.

venerdì 23 settembre 2011

IDOLA, FuORI! 10 - Considerazioni impopolari

Venire al mondo, o nascere, o vivere, significa non aver avuto la fortuna di essere stati abortiti in tempo. Dopodiché, l’unica cosa che ci resta da fare è abortire a nostra volta di tutto: famiglia, scuola, Stato, salario, religione, paura, speranza etc. Un faticoso, ma entusiasmante disapprendistato.

lunedì 5 settembre 2011

Col megafono rosso amplifichi i porci


Humachina feat. El Lissitzky

Il tentativo del PD di sfruttare la crisi finanziaria per far leva sui rapporti di forza interni al Paese e rovesciare l’esecutivo è da bignami della politica, e lo sforzo ha partorito il solito nulla. Non si può pretendere di cavar peti da un asino morto, scriveva Rabelais. Certe manovre funzionano solo quando, all’interno di una lotta per l’egemonia culturale, i tempi diventano maturi per un cambio di paradigma, ma se esiste una costante storica nell’agire politico della sinistra italiana, questa è proprio l’intempestività, l’insensibilità al kairós, l’incultura, il cinismo miope, il dogmatismo, l’attardarsi su questioni secondarie, la pusillanimità imbelle etc. Da Turati (almeno) in poi. E hanno pure il coraggio di definirsi “riformisti”. Culturalmente egemone – in Italia, in Europa e altrove – è la destra, non ci sono storie. Se non si parte da qui, e se non si edifica nel cuore del lavoro il campo base – invece che sulla “questione morale”, peraltro volgarmente intesa come “questione moralistica” –, allora è finita. È finita non solo per la sinistra, ma per la politica stessa, almeno per com’è stata intesa finora. Nel caso del PD – che sinistra non è –, gli scopi sono ben poco politici e molto opportunistici. Basta guardare (se ci riuscite senza conati) quel bagaglio di Fassino, amico intimo dei nemici dei lavoratori, ai quali porgerebbe volentieri terzi orifizi – se soltanto ne avesse –. Ora vomito. Rigurgito di antipolitica dal quale spero di riprendermi.

Se usciamo per un attimo da questo paesello provinciale, la res dura da mandare giù è che la politica internazionale funziona ormai solo come guerra permanente, come State-building utile per la cosiddetta business community, le nuove élite capitalistiche mondiali (che proprio per questo andrebbero profondamente studiate). Il potere si è soggettivato in forme inedite – in un quadro geopoliticamente mutato nel corso degli ultimi vent’anni –, contro il quale devono essere mobilitate forze all’altezza che ancora devono svilupparsi. Il fallimento di Obama è indicativo dell’ingovernabilità politica dei mercati con mezzi tradizionali. Un tempo si parlava di utopia liberale del “libero mercato autoregolato”; ora l’ideale utopico si presenta come incubo refrattario all’assunzione di una qualsiasi regolamentazione. Sullo sfondo, le allucinazioni preagoniche di chi crede ancora al vigore della sovranità nazionale si alternano ai pericolosi deliri populistici di mentecatti sostenitori di un’inesistente e medievale Respublica christiana, mentre il lavoro (che solo può valorizzare il capitale), marginalizzato rispetto alla centralità dei consumi, si dissolve in forme sempre più parcellizzate e politicamente irrilevanti.

Mario Tronti qualche tempo fa ricordava un detto mitteleuropeo: Là dove c’è il massimo pericolo, lì c’è ciò che salva.
Non su posizioni di retroguardia, ma nel luogo dell’annullamento, nella fase della sussunzione completa al capitale, la politica può giocare intelligentemente la sfida per tornare a essere attività in grado di orientare e di dirigere i processi.

Come cominciare? La mia risposta, a uso strettamente personale, è studiare ciò che finora è stato.
Ritornare alla politica non significa indulgere alle nostalgie, bensì riallacciare il passato al presente, alla congiuntura effettuale, tornare ai principi per poterli impiantare rinnovati nella verità odierna.




martedì 30 agosto 2011

IDOLA, FuORI! 9 - Quattro righe per una demistificazione

Le fantasie sono sempre deludenti perché sono il parto di una facoltà immaginativa volontaria. La fantasia mi riflette confermandomi nelle mie volizioni, anziché estromettermi. Non ci si perde mai nelle proprie fantasie, località familiari senza sorprese, luoghi d'appuntamento per noi stessi.

domenica 21 agosto 2011

IDOLA, FuORI! 8 - I "perché" dei bambini

Le cose, per il semplice fatto che esistono, sono già eternamente giustificate. Sono fesso, ma non abbastanza da chiedermi il “perché” dell’esistenza delle cose. Dovremmo disapprendere dai fanciulli. Loro non chiedono “perché” nascono i bambini; chiedono “come” nascono i bambini. Non sono mica stupidi, a differenza dei loro imbarazzati genitori. Vogliono sapere “come funziona”, da autentici empiristi naturalmente interessati alla materia, alla dinamica, alla iatromeccanica, alla fisica dei fluidi, all’idraulica applicata all’umano. Solo a seguito, da adulti adulterati e culturalmente colonizzati, diventeranno dei nevrotici convertiti alla teleologia.

mercoledì 17 agosto 2011

IDOLA, FuORI! 7 - Violenza (siv)e diritto

Affrontare sensatamente un discorso sulla violenza non è semplice, perché essa individua una nozione complessa – e amorfa, come ricorda Pier Paolo Portinaro –, in variazione di significato in rapporto al piano ideologico sul quale ci si colloca, e che per essere compresa ha bisogno peraltro di qualificarsi attraverso aggettivi (diretta, indiretta, legittima, illegittima, mitica, divina etc.).

Alla mancata precisazione di questi dettagli essenziali va attribuita la ragione di un cospicuo quantitativo di fraintendimenti che sono soliti affliggere anche gli interlocutori maggiormente disponibili al confronto.

Resto dunque convinto della necessità di esaminare alcune questioni gravitanti attorno al tema, anche allo scopo pratico di salvaguardare se stessi da tutta una serie di argomentazioni confuse e scorrette, propalate senza remore e decoro dai soliti soggetti interessati: non solo Stato e suoi apparati, ministri, presidenti del consiglio, della Repubblica, ma anche certi gruppi e movimenti pacifisti, fin troppo inclini alle facili dossologie e al giudizio della “pappa del cuore”.

Invece, gli oligofrenici fascio-leghisti che bombarderebbero ogni cosa – animata o inanimata che sia – non li prendo nemmeno in considerazione, la loro stupidità è irredimibile, e coerentemente con il loro modo di agire andrebbero solo impiccati.

Inoltre sono persuaso che analizzare la violenza sotto un profilo per così dire “neutrale” costituisca già di per sé una mistificazione, perché – come scrivevo in qualche post precedente – la verità in politica implica sempre un punto di vista, una parzialità alla quale non intendo nemmeno ora sottrarmi, e che per ragioni pratiche e teoriche mi conduce a ritenere l’azione violenta, sotto certe condizioni, uno strumento ineludibile di emancipazione.

Ora, poiché nel mondo non v’è se non vulgo, esasperato dall’esposizione agli idola propagandati da televisione e giornali, ho fatto l’unica cosa sensata che conosco (poco ma buono, come si dice).

Sono tornato in un certo senso al principio, cioè a rileggermi quanto scrive Walter Benjamin nel suo Per la critica della violenza, insieme ad altra saggistica. Quanto segue, dunque, è soprattutto una demistificazione attuata alla luce del concetto, oltre che un’operazione – condotta su me stesso – di pulizia mentale, poiché non mi sogno minimamente di credere di essere un miracolato immune da pregiudizi.

Chiaramente, prendendo in esame solo alcuni elementi, quello che scrivo non può essere considerato in nessun caso esaustivo. Questo è un blog, e il qui presente testo non pretende di sostituire lo studio diretto della letteratura qualificata sull’argomento.

Per individuare – a scopi politicamente emancipativi – alcune problematicità intrinseche al potere e al diritto, si tratta in primo luogo di mostrare la loro organicità alla violenza. Non è vero, infatti – come vorrebbe certo senso comune –, che violenza e diritto si elidano a vicenda, al contrario, essi si coappartengono intimamente. Quando parlo di potere violento non intendo quindi alludere a quel giudizio di immediata deprecazione morale che qualifica gran parte dei nostri discorsi quotidiani, bensì a un rapporto di necessità essenziale che ci porta a riconoscere correttamente la violenza come la forma di potere più originaria (di vita e di morte), così come essa caratteristicamente appare – per esempio – nella minaccia, nell’intimidazione e nella sottomissione.

Se teniamo poi conto che l’uomo diventa tale nella politica, ovvero in una dimensione della coesistenza umana concepita come produttiva di organizzazione e di stabili rapporti di potere, comprendiamo bene come chiamarsi fuori dalla violenza sia possibile solo a patto di concepirla in un’accezione estremamente povera e ristretta.

La violenza, giuridicamente sancita come potere, è violenza storicamente riconosciuta. Per questa ragione – se si vuole capire che cosa essa sia in quanto principio, senza perdersi in una casistica relativa alle sue applicazioni –, non la si può ricondurre semplicemente a mezzo estrinseco del potere, e nemmeno identificarla con una specie di materia prima che, facendosi strumento, possa servire al perseguimento di giusti fini naturali, com’è solito ritenere il giusnaturalismo, un’infestante vulgata darwiniana e – via via degradando a livelli infimi – i pappagalli subalterni alla tiritera del “fine che giustifica i mezzi”.

Il diritto positivo ci fornisce invece un valido punto di partenza, poiché richiede al potere – affinché esso stesso possa presentarsi come legittimo – di esibire la patente della propria origine storica. Tale sanzione si dà tipicamente nel fenomeno di sottomissione passiva a un ordine dei fini, che possono essere suddivisi in naturali (se privi di riconoscimento giuridico) o giuridici (dotati di riconoscimento).

Ora, se “tutti i fini naturali di persone singole entrano necessariamente in conflitto coi fini giuridici quando vengono perseguiti con violenza più o meno grande”, ne consegue che “il diritto considera la violenza nelle mani della persona singola come un rischio o una minaccia per l’ordinamento giuridico”.

Ecco allora che si palesa come la violenza sia il fenomeno in cui risplende tanto la forza quanto la debolezza del potere, il quale – per salvaguardare il diritto stesso – spoglia l’individuo della possibilità di realizzare i propri fini naturali perseguibili attraverso azioni violente, riservando esclusivamente a sé l’uso della forza a scopi giuridici. Perché è la violenza stessa, non il fine ottenibile mediante un suo uso strumentale, a minacciare al di fuori del diritto il sistema giuridico.

Il carattere terrificante di questa funzione si manifesta nella contraddizione oggettiva che si determina in coincidenza con lo sciopero ufficialmente garantito, poiché se da un lato lo Stato concede (non potendo più fare altrimenti per impedire la violenza) il diritto intendendolo solo come sospensione delle attività lavorative, dall’altro la classe operaia organizzata sviluppa questa azione secondo una concezione propria, una verità di parte, intendendola non come semplice omissione, ma come legittimo atto violento di modificazione dei rapporti di lavoro e di proprietà correnti, cosa ritenuta illecita da parte dello stesso ordinamento giuridico esistente che garantisce lo sciopero.

Il timore della violenza – a cui si riconduce il riconoscimento del diritto all’interruzione del lavoro – è indice di fragilità e di decadimento del potere, come si può altresì verificare prendendo in esame un altro fenomeno sociale, quello dell’inganno.

La menzogna inerisce a una particolare tecnica – la conversazione –, il cui carattere di mezzo puro, scevro da coercizione violenta, si mostra proprio nell’impunibilità della dichiarazione mendace stessa. La punizione della menzogna non è infatti contemplata da alcun genere di ordinamento, fino a quando la struttura giuridica si sente sufficientemente forte e vittoriosa, cioè al riparo dalle conseguenze dell’inganno. Solo successivamente, come segno di un evidente processo di decadenza e di indebolimento, il diritto provvederà a saturare con la violenza della pena anche la sfera dei mezzi puri – riducendone drammaticamente la portata –, per il timore della reazione aggressiva che la menzogna potrebbe innescare nell’ingannato.

Esistono dunque azioni violente perfettamente legittime, come abbiamo visto nel caso dello sciopero, che costituiscono la base materiale di una modificazione o dell’instaurazione di un possibile nuovo ordine reale, concreto e pacifico, non inteso cioè come mera acquiescenza e obbedienza allo stato di cose presente. Il diritto stesso prima della sua formalizzazione giuridica è peraltro petition, claim, pretesa, cioè conflitto, come dovrebbero ben ricordare gli inglesi e tutti i parlamenti, dal momento che devono la loro origine a un atto inaugurale di violenza creatrice di diritto. Anzi – come scrive Benjamin –, lo smarrimento graduale di questa cognizione è alla base della decadenza di simili istituti giuridici, come oggi appare chiaro persino al più distratto tra noi.

In un senso più ampio, del resto – secondo Carl Schmitt –, appartiene alla storia della modernità, alla sua dialettica immanente, la progressiva perdita di consapevolezza della sua struttura autentica, di quella doppia coimplicazione originaria di contingenza e di necessità (vale a dire il “politico”), da cui scaturisce la ragione (mediazione) politica moderna.

Dunque, la stretta relazione con la dimensione del potere fa riflettere sul fatto che la violenza possa assumere non solo funzioni disgregatrici (a cui generalmente si arresta la comprensione del senso comune), ma anche fondatrici e conservatrici di diritto, alle quali essa non può sottrarsi senza con ciò perdere completamente la propria validità.

A un certo tipo di violenza “dal basso”, che connota in un certo senso la stessa democrazia come azione carsica di modellamento delle diverse forme di governo, si oppone dall’alto – laddove il potere si sia istituzionalizzato in strutture più o meno complesse – la violenza degli apparati repressivi, del terrore, della pena di morte inflitta dallo Stato.

Proprio nella pena capitale rifulge il carattere archetipico del potere come potere di vita e di morte. Dunque, criticarla adeguatamente non significa contestare la determinatezza di una legge particolare, ma il diritto stesso nella sua origine e nel suo perpetuarsi come destino. È infatti nel disporre della vita e della morte che il potere si manifesta più intensamente che in ogni altro atto giuridico, e come carattere atavico esso persiste durevolmente presso gli ordinamenti politico-sociali più evoluti.

Infine, a proposito della repressione, l’analisi della violenza della polizia permette di chiarire ulteriormente il nesso con le funzioni creatrici e conservatrici di diritto, fornendoci l’opportunità di individuare altri elementi di debolezza nella sfera del potere. La polizia dispone, in una mescolanza “spettrale”, tanto di una violenza che pone quanto di una violenza conservatrice diritto, la quale si esprime nella forma della minaccia.

Così Benjamin: L’affermazione che gli scopi del potere di polizia siano sempre identici o anche solo connessi a quelli del rimanente diritto, è profondamente falsa. Anzi, il diritto della polizia segna proprio il punto in cui lo Stato, vuoi per impotenza, vuoi per le connessioni immanenti di ogni ordinamento giuridico, non è più in grado di garantirsi – con l’ordinamento giuridico – gli scopi empirici che intende raggiungere a ogni costo.
Perciò la polizia interviene “per ragioni di sicurezza” in casi innumerevoli in cui non sussiste una chiara situazione giuridica.

È soprattutto presso le democrazie moderne che il carattere spettrale e ignominioso della violenza poliziesca si rivela, mentre in un contesto segnato dalla monarchia assoluta – laddove per definizione è impedita la divisione dei poteri – essa piuttosto si sostanzializza in forme rigide, perdendo così buona parte del suo carattere di devastante ambiguità.

Da queste considerazioni si inferisce come una critica effettivamente fondata alla violenza degli apparati repressivi di Stato possa essere condotta a termine solo a patto di investire con la forza della contestazione l’intero ordine giuridico nella sua consistenza destinale, e non solo la polizia, o – ancora più velleitariamente – la parte peggiore della polizia, i macellai di Genova e compagnia brutta.