Il cibo, cotto o crudo che sia, è
in ogni caso “mondo lavorato”, incorpora cioè lavoro umano, è il prodotto di
attività integrate, di complesse mediazioni sociali.
Nella vetrina EXPO, ogni riferimento alla
base concreta e materiale della lavorazione sottesa alla preparazione degli alimenti
è amputata in partenza. I piatti, i cibi, le portate sono
presentate come realtà scisse e a sé stanti. Non cose, ma oggetti. Merci feticizzate.
Catturati nella fantasmagoria, si assiste addirittura a un duplice grado di astrazione, giacché il cibo
non solo è separato dalla sua lavorazione concreta, dai rapporti sociali
implicati, ma è presentato – sarebbe meglio dire messo in scena – in una forma essa stessa definitivamente
disincarnata.
Non è cibo mangiabile, è il suo spettacolo, la sua ultima
illustrazione. In particolare modo, la sua immagine digitalizzata (es. il
padiglione giapponese).
L’operazione di falsificazione
spettacolare del mondo in EXPO prevede che la rappresentazione del cibo debba
manifestarsi nella sua forma più pura e illusoria, ipnotica. Il cibo si vede e basta.
Non si consuma.
Le zone di ristoro sono collocate nel punto cieco del
palcoscenico, sottratte allo sbrilluccichio dei padiglioni. Per acquistare e mangiare
un panino scadente occorre defilarsi nelle aree periferiche, dove pure stanno i
cessi.
La consumazione implica la masticazione,
la digestione e la deiezione, tutte pratiche che rimandano a una materialità concreta
che il dogma dello spettacolo deve occultare ed esorcizzare.
Il cibo a EXPO si smaterializza, si
spiritualizza, diventa sovrasensibile, misteriosamente sociale, autonomo e
indipendente, un feticcio danzante davanti ai visitatori dei padiglioni, passivi spettatori inebetiti dall’evento.
Le immagini fluttuano in rutilanti animazioni
digitali su grandi schermi, come accade presso lo stand sudcoreano.
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