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venerdì 16 ottobre 2020

Humachina per la Giornata dell'alimentazione [appunti dal taccuino EXPO 2015 ]


Il cibo, cotto o crudo che sia, è in ogni caso “mondo lavorato”, incorpora cioè lavoro umano, è il prodotto di attività integrate, di complesse mediazioni sociali. 

Nella vetrina EXPO, ogni riferimento alla base concreta e materiale della lavorazione sottesa alla preparazione degli alimenti è amputata in partenza. I piatti, i cibi, le portate sono presentate come realtà scisse e a sé stanti. Non cose, ma oggetti. Merci feticizzate.

Catturati nella fantasmagoria, si assiste addirittura a un duplice grado di astrazione, giacché il cibo non solo è separato dalla sua lavorazione concreta, dai rapporti sociali implicati, ma è presentato – sarebbe meglio dire messo in scena – in una forma essa stessa definitivamente disincarnata. 

Non è cibo mangiabile, è il suo spettacolo, la sua ultima illustrazione. In particolare modo, la sua immagine digitalizzata (es. il padiglione giapponese).

L’operazione di falsificazione spettacolare del mondo in EXPO prevede che la rappresentazione del cibo debba manifestarsi nella sua forma più pura e illusoria, ipnotica. Il cibo si vede e basta. Non si consuma. 

Le zone di ristoro sono collocate nel punto cieco del palcoscenico, sottratte allo sbrilluccichio dei padiglioni. Per acquistare e mangiare un panino scadente occorre defilarsi nelle aree periferiche, dove pure stanno i cessi.

La consumazione implica la masticazione, la digestione e la deiezione, tutte pratiche che rimandano a una materialità concreta che il dogma dello spettacolo deve occultare ed esorcizzare.

Il cibo a EXPO si smaterializza, si spiritualizza, diventa sovrasensibile, misteriosamente sociale, autonomo e indipendente, un feticcio danzante davanti ai visitatori dei padiglioni, passivi spettatori inebetiti dall’evento.

Le immagini fluttuano in rutilanti animazioni digitali su grandi schermi, come accade presso lo stand sudcoreano.


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